La mezzaluna d’Europa di Sergio Paini

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La questione dei musulmani nei Balcani, ormai da tempo, è tornata alla ribalta delle cronache, anche in Italia. Si tratta di un tema complesso, che tende ad essere sbrigativamente semplificato dall’isteria allarmistica che accomuna, tout court, l’Islam con il terrorismo oppure, per contrasto, da una eccessiva minimizzazione, al limite della negazione, di un problema – la presenza di gruppi terroristici – effettivamente esistente. Il libro “La mezzaluna d’Europa – I musulmani nei Balcani dagli Ottomani fino all’Isis” (ELS – La Scuola, Editrice Morcelliana, 2016, pp. 154) di Sergio Paini costituisce una risposta ragionata e meticolosamente informata, a come si è sviluppato l’Islam nei Balcani, dalle origini in epoca medievale sino ai giorni nostri.

L’autore presenterà il suo nuovo libro sabato 21 gennaio alle ore 18 presso il circolo Polski Kot di Torino. Ingresso gratuito.

A seguire aperitivo tipico.

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30° anniversario del Memorandum SANU

Il 24 settembre 1986 apparve su di un quotidiano belgradese (Večernje Novosti) un articolo su di un Memorandum dell’Accademia serba della Scienze e delle Arti, a proposito della posizione della Serbia in Jugoslavia. Negli ultimi trenta anni tale documento (peraltro si trattava di una bozza, dato non irrilevante) è stato associato, innumerevoli volte (da studiosi e non), alla politica di Slobodan Milošević, al nazionalismo serbo, ed alla distruzione della federazione jugoslava. In altri termini, il Memorandum è stato percepito ed interpretato come la base ideologica della politica del leader dei comunisti di Serbia nella sua scalata verso il potere, fondata, appunto, sul nazionalismo serbo.

Le critiche verso il Memorandum, in Jugoslavia, hanno avuto due fasi iniziali: ovviamente nell’autunno del 1986 e nei mesi immediatamente successivi. Tuttavia, dopo una fase di relativo oblio mediatico, tornarono alla ribalta nel 1989. Successivamente la questione del Memorandum venne ripresa, soprattutto a partire dal 1991, anche da osservatori stranieri (giornalisti e ricercatori), giungendo così, in qualche modo, anche al pubblico occidentale. La questione del Memorandum ha assunto un carattere quasi mitologico, e ancora oggi nello spazio post-jugoslavo, al di fuori dei confini della Serbia, ha una valenza simbolica profondamente negativa per indicare, con timore, il risorgere di politiche nazionaliste serbe (queste ultime dovrebbero storicamente essere poste sulla scia del Načertanje del XIX secolo).

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Il titolo dell’articolo originale sul Memorandum, apparso il 24 settembre 1986 [Ponuda beznađa – L’offerta della disperazione]. Foto dell’autore.

Senza alcuna pretesa di esaustività in merito al tema in oggetto, in occasione del trentesimo anniversario, è desiderio di chi scrive condividere il lavoro svolto (tratto dalla tesi dottorale, stilata a cavallo tra il 2012 ed il 2013), frutto di ricerche d’archivio sul campo condotte nel 2011-2012, sebbene iniziate indipendentemente già nel 2005. Il testo che segue deve essere inteso come un tentativo di storicizzare quegli eventi, contestualizzarli, con mente sgombra da pregiudizi e senza mirare ad apologie di sorta. In altre parole è un tentativo di comprensione del Memorandum nel contesto storico della Serbia del 1986, e della reazione dei vertici politici (serbi e jugoslavi) ad esso. In sintesi, il Memorandum appare come un sintomo di un malessere della società serba e jugoslava, iniziato con la crisi economica alla fine degli anni ’70 del secolo scorso (sebbene non riconducibile unicamente a questo fenomeno). Un documento che sostanzialmente, nei contenuti, non aggiunse nulla di radicalmente nuovo sulla posizione di alcuni (ben noti) critici del regime. Lo scoppio del caso mediatico nel settembre del 1986, in quanto tale, probabilmente, dovrebbe essere inteso come l’indice di una delle numerose lotte tra le fazioni politiche all’interno della Lega dei comunisti, piuttosto che un efficace tentativo di reprimere la dissidenza. Un documento, infine, che con il senno del poi, è stato additato come il piano d’azione politica di Milošević negli anni successivi. Ma che, in quel 1986, difficilmente avrebbe potuto esserlo. Più realisticamente, alcune idee del documento, ben presenti in parte dell’opinione pubblica in Serbia a metà degli anni ‘80, vennero adattate e cooptate dal regime per ottenere il supporto e la legittimità, in un momento di profonda crisi del regime stesso. Il tutto però avvenne gradualmente e, a seconda delle circostanze del momento, senza cesure immediate. I punti di rottura, della radicalizzazione del clima politico e delle numerose epurazioni dal partito, in questo senso, furono simbolicamente due: l’ottava sessione del Comitato centrale della Lega dei comunisti di Serbia nel settembre 1987 (vittoria del clan politico di Milošević in Serbia, province escluse), e l’adunata ad Ušće del novembre 1988 (icona delle mobilitazioni di piazza contro le legittime dirigenze della Vojvodina e del Kosovo – ed anche della Repubblica socialista del Montenegro – sfociate il 28 marzo 1989 con gli emendamenti costituzionali della Serbia, che ridussero drasticamente l’autogoverno delle due province, e la nota commemorazione a Kosovo Polje del 28 giugno 1989).

Detto ciò, è evidente che la politica perseguita dalla Lega dei comunisti della Serbia nel periodo compreso tra il 1987 ed il 1989, durante la fase della cosiddetta “Rivoluzione antiburocratica”, ha ripreso numerosi elementi del Memorandum, ossia dell’ideologia nazionalista serba. Ed è altrettanto evidente che l’impatto di tali politiche, costituite da una serie di “colpi di stato” (sostenuti da Belgrado) nei confronti dei legittimi vertici politici in Vojvodina, Kosovo e Montenegro, avvenute nel più totale e assordante silenzio dell’Armata popolare jugoslava, e con il tacito interessato assenso delle altre repubbliche jugoslave (eccezion fatta, in parte, per la Slovenia di Milan Kučan, e dell’ideologo croato Stipe Šuvar), contribuirono ad un profondo clima di sfiducia, paura, confronto e radicalizzazione della retorica, sino a giungere al punto di non ritorno del 1991, e dei tragici eventi che seguirono.

Il Memorandum nel suo contesto storico e la reazione dei vertici politici

L’élite politica serba, seguendo il pensiero marxista dell’ideologo jugoslavo Edvard Kardelj (Sloveno, artefice della Costituzione jugoslava del 1974), cercava un’alleanza e l’inclusione degli intellettuali nella sfera politica, alla ricerca di nuove soluzioni alla crisi, in grado di fornire risposte ai nuovi problemi, all’interno del sistema socialista. L’Accademia delle Scienze di Serbia non era certo un’eccezione e fu così dunque che nel corso del 1985, venne formalmente istituita una commissione, dietro invito della presidenza della repubblica serba (presieduta da Ivan Stambolić) al fine di analizzare la situazione economica e sociale della Serbia e del Paese; il frutto del loro lavoro era destinato esclusivamente ai vertici politici della Repubblica (della Serbia). A tale attività, lecita e legittimata dal potere politico, si affiancò una seconda commissione di accademici, legati ad altri circoli intellettuali, ed in particolare al Comitato per la difesa della libertà di pensiero ed al Pen Club, particolarmente attivi nell’ambito dei diritti umani, che solevano tenere riunioni sulla sorte sventurata, (a detta loro), dei Serbi del Kosovo – finendo così coll’essere connotati come nazionalisti; ciò che rendeva la situazione praticamente illecita era il loro essere dissidenti nei confronti del regime.

I servizi di sicurezza jugoslavi (Služba državne bezbednosti – SDB) monitoravano costantemente e con dovizia di particolari i nemici dello Stato, inclusi naturalmente i membri dell’Accademia che avevano preso parte ai lavori della commissione sopraddetta. Secondo il Consiglio federale per l’ordine costituzionale (di fatto il vertice dei servizi di sicurezza), v’era una stretta connessione tra il ‘Comitato per la difesa della libertà di pensiero ed espressione’ e l’Accademia, con lo scopo deliberato di condurre un’opposizione anticomunista. Il gruppo di dissidenti che organizzava le petizioni e le proteste a Belgrado, per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle condizioni dei Serbi del Kosovo, fu in grado di trovare rifugio sotto l’ombrello istituzionale dell’Accademia stessa. Questo secondo gruppo di intellettuali diede l’avvio ai lavori di una seconda commissione, il cui scopo era quello di produrre un “Memorandum sulla posizione della nazione serba nella cultura e nell’educazione in Kosovo.” I membri della commissione, secondo i servizi di sicurezza, erano: Dobrica Ćosić, Pavle Ivić, Predrag Palavestra, Mihajlo Marković e Dimitrije Bogdanović.[1] Dobrica Ćosić, noto intellettuale serbo, in particolare per i suoi romanzi patriottici, ha sempre negato una sua partecipazione attiva ai lavori della commissione, ed anche i suoi colleghi accademici ed intellettuali hanno avallato le sue dichiarazioni, sebbene fosse a tutti chiaro che, dati i contenuti e le idee del Memorandum, doveva necessariamente esserci stato un suo coinvolgimento, diretto o indiretto. Per la precisione, Ćosić dichiarò semplicemente di aver fornito le sue impressioni sui lavori della commissione[2], ammissione con ogni probabilità volta a difendersi da probabili sanzioni penali da parte del regime.

Nel Settembre del 1986, la dirigenza comunista serba, nell’intento di contrastare il crescente movimento di opposizione, legato al gruppo di intellettuali, lanciò una nuova campagna di propaganda. Milošević stesso ebbe un incontro all’inizio di Settembre con i principali giornalisti e caporedattori della capitale, cercando di coordinare la campagna mediatica.[3] Il 24 Settembre apparve un breve articolo sul quotidiano belgradese Večernje Novosti (notizie della sera), all’epoca quello con la maggior tiratura nella capitale, recante la firma del giornalista Aleksandar Đukanović, che attaccava con toni aspri il Memorandum (sino ad allora del tutto ignoto all’opinione pubblica). Il documento ancora non era stato pubblicato, e formalmente, ad esclusione degli addetti ai lavori e di una ristretta cerchia di politici, nessuno ne era a conoscenza. Essenzialmente il giornalista trasse alcune delle parti più compromettenti, agli occhi del regime, della bozza del testo, bollandolo come libercolo frutto di un bieco nazionalismo. La causa principale dei problemi della Jugoslavia e della Serbia in particolare, secondo gli artefici del Memorandum, era la Costituzione jugoslava del 1974, che avrebbe innescato un grave problema di disintegrazione nel Paese, la cui valenza simbolica era chiara: veniva auspicato un ritorno ad un maggiore accentramento dei poteri (negando così la politica di Tito dell’ultimo ventennio circa).

La versione del documento oggi nota, pubblicata ufficialmente dalla SANU stessa a metà degli anni ’90, è leggermente ridotta rispetto alla bozza originale. Infatti, secondo i servizi, la versione di lavoro era composta di 150 pagine, che vennero ridotte successivamente a 74. Di queste 74 pagine, 30 erano pronte (nella seconda metà di Settembre circa) ad andare in stampa, mentre le 44 rimanenti erano in fase di revisione, e fu proprio allora che Đukanović pubblicò l’articolo. Proprio a breve distanza dall’ultimazione dei lavori per la pubblicazione del documento, venne dunque bloccato dalle autorità,[4] sebbene fosse destinato ad uso esclusivo delle autorità stesse e non del pubblico.

Le reazioni dei vertici politici jugoslavo e serbo non si fecero attendere, incluse quelle di Ivan Stambolić (presidente della Serbia) e Dragiša Pavlović (presidente dei comunisti della metropoli belgradese). Stane Dolanc, a capo dei servizi di sicurezza jugoslavi disse in proposito che:

[il] servizio di sicurezza nella situazione in cui ci troviamo non è nella posizione di far rispettare la legge. Il servizio di sicurezza o i servizi di sicurezza sono nella posizione di far rispettare la legge se qualcuno ubriaco in un’osteria dice “abbasso i comunisti”, abbasso questi, abbasso quelli, noi possiamo arrestarlo immediatamente. Il servizio di sicurezza può applicare la legge se qualcuno scrive in strada o su un muro “Kosovo repubblica” [riferito al separatismo albanese], ma il servizio di sicurezza non può fare nulla contro né [Dobrica] Ćosić, né [Vladimir] Dedijer, né [Kosta Čavoški], e altri quando scrivono una piattaforma sulla distruzione della Jugoslavia.[5]

Probabilmente, Dolanc (per giustificarsi) si riferiva al fatto che la presenza di sentimenti contrari al regime socialista ed alla Jugoslavia fosse un fenomeno talmente diffuso nella società da rendere inefficaci i tradizionali metodi di prevenzione e contrasto adottati dai servizi di sicurezza. Del resto, le idee propugnate dagli oppositori serbi nel Memorandum non erano affatto nuove, dunque è evidente che la censura del regime non fosse in grado di praticare un controllo estensivo sulla circolazione delle idee critiche nei confronti dei governanti. Inoltre, l’iniziativa attuata da Stipe Šuvar circa due anni prima, tramite il Libro bianco (un indice delle opere culturali e artistiche colpevoli di essere controrivoluzionarie, peraltro in gran parte frutto di autori serbi) non diede in concreto alcun risultato.

Milošević, il giorno successivo alla pubblicazione dell’articolo di Đukanović, durante una sessione della Presidenza del partito serbo, affermò che:

…non è una persona normale e assennata [chi crede] che l’intera Jugoslavia possa supportare una linea nazionalista, la linea nazionalista di Dobrica Ćosić e del gruppo dell’Accademia delle Scienze.[6]

Stane Dolanc, Slobodan Milošević e Azem Vllasi non furono sorpresi dai contenuti del Memorandum, ben noti al pubblico jugoslavo sin dalla fine degli anni ’70, bensì dall’audacia nell’organizzare sistematicamente tali contenuti, fornendo a certe idee nazionaliste serbe una forma strutturata con un chiaro intento politico. Milošević tenne volontariamente un basso profilo perché, forse, ritenne opportuno non fare pubblicità alle idee del Memorandum nei confronti dell’opinione pubblica.[7] Milošević voleva così dimostrare che la Lega dei comunisti fosse il reale detentore del potere e pertanto avesse il diritto esclusivo di creare l’agenda politica, in quanto unica istituzione a cui fosse consentito di offrire delle risposte ai problemi socio-politici ed allo scontento popolare. In secondo luogo Milošević credeva, apparentemente, che l’inclusione degli intellettuali nella soluzione della crisi in atto fosse di primaria importanza, perché essi avevano la conoscenza ed il sapere per superare la crisi economica all’interno del sistema socialista autogestito jugoslavo.

A partire dall’autunno del 1986, il silenzio pubblico di Milošević venne, forse erroneamente, interpretato come una forma di assenso del leader serbo alle idee contenute nel Memorandum. In realtà Milošević parve nettamente contrario a tali idee, come si è visto, perché percepiva gli autori del documento come dei potenziali pericolosi rivali politici, che gli avrebbero potuto causare problemi di ordine pubblico a Belgrado e in Serbia.

Va inoltre sottolineato che nel gennaio 1986 (otto mesi prima della campagna contro il Memorandum), Milošević, in occasione della sua candidatura a futuro presidente del Politburo serbo, venne accusato da Petar Živadinović (anch’egli membro del Politburo serbo, impiegato presso la TV belgradese) di aver installato un nuovo direttore (Dača Marković) del Centro marxista di Belgrado in maniera inappropriata, senza seguire lo statuto allora vigente, e senza informare i membri belgradesi del Comitato centrale.[8] Živadinović asserì che in seguito alla nomina del nuovo direttore del Centro marxista belgradese (appuntato da Milošević dopo esser divenuto presidente del comitato belgradese della Lega dei comunisti della Serbia, nel 1984) ossia Dača Marković, la “lotta ideologica” ovvero la propaganda comunista contro gli oppositori ed i dissidenti, ed in particolare gli intellettuali, diminuì, in un momento in cui avrebbe dovuto “intensificarsi” e “crescere.” Curiosamente, Živadinović affermò che nonostante Dača Marković avesse adottato uno stile molto aspro nel criticare i presunti avversarsi ideologici, allo stesso tempo tacque (ben prima del caso del Memorandum) “continuamente sull’Accademia delle Scienze Serba.” Ciò anche quando “vi sono ragioni per criticarla.”[9] Se si considera che all’epoca l’Accademia era considerata complice nel proteggere i dissidenti dal regime, e se si tiene a mente il silenzio in pubblico di Milošević nel Settembre del 1986, si potrebbe ritenere che già dal 1984-1985, Milošević (tramite il direttore Dača Marković) non volesse attaccare frontalmente gli accademici rei di cospirare ai danni del regime. Anche volendo considerare attendibili le affermazioni di Živadinović (che peraltro appoggiava un altro candidato alla Presidenza della Lega dei comunisti della Serbia), resta arduo in base alle informazioni disponibili, affermare che effettivamente Milošević fosse in quella fase esplicitamente colluso con gli accademici e dunque con i dissidenti. Inoltre i sostenitori di Milošević, tra cui vari ex-partigiani, come ad esempio Nikola Ljubičić – eroe nazionale jugoslavo – lo apprezzarono proprio per aver combattuto in egual misura tutti i nazionalismi (incluso quello serbo). In assenza di ulteriori prove, non sarebbero altro che affermazioni puramente speculative ed infondate.

D’altro canto è evidente che almeno dal 1984, due anni prima della stesura del Memorandum, egli condivideva molte delle idee di natura economica sul ruolo deleterio della frammentazione del mercato jugoslavo.[10] Se si considera che Milošević entrò in politica a tempo pieno nel 1984 e che, dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso, ricoprì vari ruoli in qualità di direttore di aziende e in ultimo come direttore di banca, inoltre, il fatto stesso che fosse uno dei membri della commissione Kraigher, finalizzata alla soluzione dei problemi economici dell’economia jugoslava, non può stupire dunque la sua condivisione di certe idee economiche volte ad una maggiore integrazione del mercato interno jugoslavo.

Infine, la percezione del fallimento di un modello economico confederale, che avrebbe spinto il Paese a certe forme sorpassate di autarchia, era ben presente nell’ambiente socio-culturale della Serbia degli anni ’80 (in contrasto con altre idee e percezioni nelle Repubbliche nord-occidentali, come la Slovenia e la Croazia). Il Memorandum dunque, come accennato in precedenza, non aggiunse o affermò nulla di nuovo o inusuale nel discorso culturale della Serbia di quel tempo. L’attacco contro l’Accademia serba e certi accademici in particolare, fu probabilmente un “danno collaterale” della propaganda ideologica comunista contro un’opposizione embrionale al regime. Fu inoltre, il probabile esito di una strisciante lotta tra fazioni politiche interne alla Lega dei comunisti stessa, che si dispiegheranno con forza nel 1987. Nei mesi successivi, durante la primavera del 1987, Milošević delineò una strategia politica che riscosse un ampio successo in termini di consenso e legittimità: una politica demagogica, il cui perno era la situazione dei Serbi del Kosovo.

Christian Costamagna

[1] ARS, AS 1589/IV, CK ZKS, t.e.1329, Magnetogram skupne seje P SFRJ in P CK ZKJ-28.10.1986, allegato redatto dal Savezni Savet za Zaštitu Ustavnog Poretka, “Neki političko-bezbednosni aspekti pokušaja organizovanih grupnih dolazaka srba i crnogoraca iz SAP Kosova u Beogradu”, Beograd, 15 Jul 1986, p. 6. Secondo i servizi di sicurezza jugoslavi, il fervore degli intellettuali nazionalisti di Belgrado era in prima istanza volto ad attaccare il socialismo in Jugoslavia, anziché mosso dal loro reale interesse per le sorti dei Serbi del Kosovo, p. 4. Ćosić, Palavestra e Bogdanović all’epoca – autunno 1986 – non vennero menzionati dalla SANU. Cfr. Audrey Helfant Budding, Serbs intellectuals and the national question, 1961-1991 (Tesi dottorale, Harvard University, 1998),  p. 311.

[2] Cohen, Serpent in the Bosom, cit., p. 58.

[3] AS, P CK SKS, k. 518, Deveta Sednica Predsedništva Centralnog Komiteta Saveza komunista Srbije. Beograd, 25. September 1986 godine, p. 21/3.

[4] ARS, AS 1589/IV, CK ZKS, t.e.1329, Magnetogram skupne seje P SFRJ in P CK ZKJ-22.10.1986, [Discorso di Stane Dolanc, capo del Consiglio federale per la protezione dell’ordine costituzionale], p. 30. La sezione (sulla questione socio-economica), pubblicata a Londra nel Novembre/Dicembre 1986, era composta da circa 25 pagine (la parte sulla nazione serba era di 23 pagine circa), cfr. Mihailo V. Mikich (ed.), Memorandum Srpske Akademije Nauka i Umetnosti (London: Biblioteke Svetosavlje Novembre/Dicembre 1986, http://icr.icty.org). La sezione socio-economica del Memorandum pubblicata dalla SANU nel 1995 è composta da 26 pagine (la parte sulla nazione serba è di 23 pagine), cfr. Kosta Mihailović, Vasilije Krestić, Memorandum of the Serbian Academy of Sciences and Arts. Answers to criticism (Beograd: SANU, 1995). Si può ragionevolmente ipotizzare che la parte che allarmò i censori del regime fu proprio quella dedicata alla posizione della nazione serba in Jugoslavia e non quella legata agli aspetti economici.

[5] ARS, AS 1589/IV, CK ZKS, t.e.1329, Magnetogram skupne seje P SFRJ in P CK ZKJ-22.10.1986, [Discorso di Stane Dolanc, capo dei servizi di sicurezza jugoslavi ovvero del Consiglio federale per la protezione dell’ordine costituzioanale], p. 27.

[6] AS, P CK SKS, k. 518, Deveta Sednica Predsedništva Centralnog Komiteta Saveza komunista Srbije. Beograd, 25. September 1986 godine, p. 22/3.

[7] Dejan Jović spiega chiaramente che Milošević “credeva che l’opposizione non andasse trattata come un partner” cfr. Dejan Jović, Yugoslavia: a state that withered away (West Lafayette, Indiana: Purdue University Press, 2009), pp. 252-253.

[8] AS, P CK SKS, k. 431, Neautorizovane Magnetofonske Beleške sa 114. Sednice Predsedništva Centralnog Komiteta Saveza komunista Srbije, Održane 24. i 25. januara 1986. Godine,  p. 28/1.

[9] AS, P CK SKS, k. 431, Neautorizovane Magnetofonske Beleške sa 114. Sednice Predsedništva Centralnog Komiteta Saveza komunista Srbije, Održane 24. i 25. januara 1986. Godine,  p. 28//5.

[10] Politika, 24 Novembre 1984, p. 4. Sulla frammentazione del mercato jugoslavo cfr. Marijan Korošić, Jugoslavenska kriza (Zagreb: Naprijed, 1989), pp. 70-78.

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Edizione ufficiale, con una lunga introduzione critica, del Memorandum, e delle reazioni ad esso, pubblicata dalla SANU nel 1995, in lingua inglese. Foto dell’autore.

 

FYRUK? Ukoslovakia? Herceg-Engleska?

East Ethnia

It has become mildly popular, in the wake of the disastrous referendum in which a small majority of a deliberately misinformed public voted to advise the UK government to leave the European Union, to draw parallels between the future of the UK, which would certainly not survive such a dramatic move, and the recent past of the states of the former Yugoslavia.

There are a few similarities, which might as well be noted. The first of them is that decisions deeply affecting the fate of a great many people were decided after bitter, ethnocentric populist campaigns in a referendum. The second is that they led to the rise into prominence of bizarre and clownish figures from the political margins who would never have a chance if they had to face an informed public or oppose a responsible and engaged elite. And of course the third is that we were able…

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This week’s predictions: Ko te Karadžić nek ti piše pjesme

East Ethnia

dabarOn Thursday the verdict will be delivered in one of ICTY’s last major cases, the one against Radovan Karadžić. You all know who he is and what he did, so no need to go into the details here: if you want to refresh your memory, here is the final amended version of the indictment. It is fairly easy to make a prediction that has been made by everybody else as well, and that is that Karadžić will be convicted. No surprise there – the evidence is overwhelming and his defence was weak (a fact that is not the fault of Karadžić’s legal counsellor Peter Robinson, who has to be recognised for doing a monumental job in assuring a fair trial despite an unreliable indictee who insisted on representing himself and a series of witnesses who were largely unhelpful).

But of course the question that remains open is what Karadžić…

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Macedonia: quando si terranno le elezioni politiche?

Oggi (domenica 21 febbraio) il capo della delegazione dell’UE a Skopje, Aivo Orav, assieme all’ambasciatore americano Jess Bailey, comunicheranno le loro valutazioni a proposito della presenza delle condizioni democratiche indispensabili affinché si possano svolgere le elezioni politiche in Macedonia. I punti più controversi riguardano un accordo dei quattro principali partiti politici macedoni (VMRO-DPMNE, SDSM, BDI e PDSH) sulla regolamentazione dei media (che avrebbe dovuto concludersi ieri), e la revisione delle liste elettorali (da parte di una apposita commissione statale). Il parere dei diplomatici europei ed americani (posticipato di un giorno, a causa delle divisioni degli attori locali) non è vincolante e, di conseguenza, la responsabilità ultima ricade sui politici macedoni.

In seguito alla mediazione dell’UE e degli USA per porre termine alla crisi politica macedone, la scorsa estate si giunse all’Accordo di Przino, sottoscritto dai leader dei principali partiti. I passaggi centrali dell’Accordo prevedevano la partecipazione dell’SDSM (opposizione) al governo, le dimissioni anticipate del premier Nikola Gurevski e la formazione di un governo di transizione che avrebbe condotto ad elezioni il prossimo 24 aprile, oltre alla nomina di un Procuratore speciale che avrebbe dovuto indagare su presunti illeciti resi noti al pubblico dall’opposizione (tramite la divulgazione di registrazioni illegali che, secondo l’SDSM, sarebbero state compiute dal governo a scapito di migliaia di cittadini macedoni).

Il mediatore dell’UE, il belga Peter Vanhoutte, dopo una serie di colloqui con gli esponenti politici macedoni, nell’intento di giungere ad una soluzione condivisa, in particolare a proposito della riforma dei media (considerata imprescindibile affinché si possano svolgere delle elezioni democratiche), ha espresso, la notte scorsa, un certo scetticismo sul raggiungimento di un accordo. Vanhoutte ha pubblicato sul suo profilo Twitter una serie di commenti e immagini di gattini, giungendo ad affermare “mi arrendo: non si terranno le elezioni il 24 aprile”.

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Nikola Gruevski, ex premier e leader della VMRO-DPMNE, è fermo nel sostenere la necessità tenere le elezioni il prossimo 24 aprile. In una recente intervista, ha dichiarato che per il Paese “è necessaria la stabilità, e non crisi e conflitti”. Stamane, Ilija Dimovski, portavoce della VMRO-DPMNE, ha dichiarato che, a prescindere dalle valutazioni degli ambasciatori Orav e Bailey, le elezioni si terranno ad aprile.

Zoran Zaev, leader dell’opposizione, reputa invece sia necessario rimandare le elezioni perché non ci sarebbe il tempo necessario per creare le condizioni minime per elezioni libere e democratiche. Secondo Zaev: “Se non completiamo il controllo dei registri elettorali e se non si riforma il sistema dell’informazione e dei media, ci saranno sì delle elezioni, ma con nuovi brogli e senza una via d’uscita da questa crisi politica”.

L’odierna valutazione dei due ambasciatori, e la conseguente reazione dei due maggiori partiti politici macedoni, potrebbe segnare una svolta decisiva per la data delle elezioni (e per la stabilità del Paese balcanico).

La Macedonia, in attesa di una soluzione della crisi politica, sta affrontando da mesi un’altra crisi cruciale, quella dei migranti. Dato questo contesto, la stabilità interna del Paese acquisisce un’ulteriore rilevanza anche a livello europeo.

Christian Costamagna

Guerra del Kosovo: nuove fonti USA. Appunti per una storia.

Prima parte.

 

Quali furono le cause della Guerra del Kosovo? Cosa spinse la NATO ad intervenire? Queste ed altre domande hanno assillato decine di politologi e storici. La letteratura accademica sul tema è assai vasta e non è questa la sede opportuna per sviscerala (è sufficiente effettuare una breve ricerca sugli appositi cataloghi online). Tuttavia, persiste una certa credenza che tende ad identificare i bombardamenti sulla Repubblica Federale di Jugoslavia nel 1999 come una qualche manovra “geopolitica” volta all’espansione dell’Alleanza atlantica a scapito della Russia, oppure per controllare eventuali oleodotti, gasdotti e vie di comunicazione verso l’Oriente.

La Biblioteca della Fondazione Clinton, su richiesta della BBC, ha recentemente rilasciato sul proprio sito un file contenente oltre 500 pagine di trascrizioni di decine telefonate tra Bill Clinton e Tony Blair, condotte tra il 1997 ed il 2000. Le conversazioni tra i due capi di Stato, in quanto tali, possono essere considerate un insieme di fonti valide per la Guerra del Kosovo, sebbene con alcune avvertenze. In primo luogo si tratta di una serie, probabilmente inconsistente, di telefonate avvenute tra Clinton e Blair; ciò implica che ve ne possano essere altre non accessibili. In secondo luogo, tali trascrizioni sono pesantemente censurate, soprattutto quando pare che i toni della telefonata si facciano potenzialmente più interessanti e ricchi di dettagli. In terzo luogo occorrerebbe confrontare le trascrizioni delle telefonate tra Clinton ed i capi di Stato della Francia, della Germania e della Russia (in particolar modo), nello stesso lasso temporale. Infine, sarebbe necessario verificare i documenti delle discussioni interne allo staff della Casa Bianca, tra Clinton ed i suoi collaboratori, e quelle tra loro e gli altri Dipartimenti (ministeri) americani, in particolar modo quello della Difesa e degli Esteri. Insomma, la “nuova fonte” in questione è lungi dall’offrire un quadro di completezza, anche perché è altrettanto necessario confrontare la suddetta mole di dati con la letteratura esistente, e valutare se, eventualmente, possa emergere una nuova interpretazione degli eventi storici, una nuova tesi insomma.

Le fonti rilasciate dalla Fondazione Clinton, in linea generale, vanno in qualche modo a confermare la tesi prevalente (ossia un intervento volto a bloccare l’ennesimo episodio di pulizia etnica in ex Jugoslavia negli anni ’90), oltre a fornire qualche interessante dettaglio. Ovviamente, le parti inerenti al Kosovo sono concentrate tra la fine del 1998 ed il 1999.

Ciò che emerge, in origine, è un Bill Clinton refrattario rispetto all’intervento armato, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Nell’autunno 1998, il Presidente americano maturò la convinzione che una reale minaccia di ritorsione militare verso la Jugoslavia (governata da Slobodan Milosevic), convincesse quest’ultimo a desistere dall’utilizzo indiscriminato delle forze di sicurezza verso i civili in Kosovo. Di seguito si vedranno alcuni passaggi salienti di una telefonata avvenuta nell’estate del 1998.

Clinton_Blair

Il 6 agosto 1998 (pag. 171 e segg. del documento *.pdf – d’ora in poi verrà riportato solo il numero delle pagine citate), Clinton esprime le proprie preoccupazioni a Blair, perché reputa che le forze di sicurezza di Belgrado non si limitino ad eliminare i militanti dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK in Albanese), bensì stiano conducendo una “campagna sistematica contro la popolazione civile”, con il rischio di una “grande catastrofe umanitaria”. Il Presidente americano era persuaso che Milosevic stesse agendo nella convinzione che una reazione della NATO fosse praticamente impossibile, perché avrebbe richiesto una risoluzione delle Nazioni Unite, e la Russia, in quanto membro del Consiglio di Sicurezza, non avrebbe avallato un simile piano. Clinton avrebbe quindi voluto elaborare un piano condiviso per rendere credibile la minaccia di ritorsioni da parte della NATO e indurre Milosevic a fare marcia indietro, imponendogli un ultimatum e “ristabilire l’autonomia del Kosovo”.

Clinton avrebbe voluto realizzare il proprio piano sotto l’egida delle Nazioni Unite, tuttavia era conscio che la Russia non l’avrebbe concesso e ne sarebbe sorto uno scontro diplomatico. Nel ragionamento politico del Presidente USA, coinvolgere la Russia di Boris Eltsin all’interno dell’ONU sarebbe stato un grave errore, perché avrebbe messo in imbarazzo ed ulteriormente indebolito l’ex rivale post-sovietico. Clinton nutriva un certo rispetto per Eltsin, sapeva che in quella fase il Presidente russo aveva problemi di salute, mentre l’economia del Paese era molto debole. Forzare la Russia a prendere una decisione sarebbe stato pericoloso perché se la Russia si fosse astenuta nel Consiglio di Sicurezza, avrebbe fortemente indebolito politicamente Eltsin a casa propria. D’altro canto, puntare su di un veto supportato da Primakov, avrebbe isolato la Russia dal resto della Comunità internazionale in un momento di grave necessità (172).

Clinton, prendendo spunto dalle minacce agli osservatori internazionali in Kosovo da parte delle forze di Belgrado, prese in considerazione l’idea di far incriminare Milosevic sotto il profilo della legalità internazionale, sfruttando i precedenti accumulati nel corso degli anni dal Presidente serbo, tra cui “la minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionali” e le “atrocità umanitarie” compiute in Bosnia ed Erzegovina. Il Presidente USA non era sicuro però di poter convincere, sotto questo punto di vista, l’alleato Blair e, soprattutto, il Presidente francese Chirac ed il Cancelliere tedesco Kohl.

Clinton è convinto dunque che il male minore sia quello di violare la legalità internazionale, ossia agire senza una Risoluzione ONU, pur di non danneggiare Eltsin. Il Presidente americano ribadisce a Blair la sua genuina preoccupazione sui rischi di quanto potrebbe accadere se le forze di sicurezza di Belgrado non venissero bloccate. Parla di voci non confermate a proposito di fosse comuni con centinaia di corpi, e lamenta il fatto che l’UCK stia tentando di coinvolgere gli USA nel conflitto. Infatti, Clinton afferma che gli insorti albanesi stessero cercando di far sì che l’America divenisse la forza aerea dell’UCK per poter così ottenere l’indipendenza dalla Serbia (all’epoca parte della Repubblica federale di Jugoslavia). Egli aggiunge che non vuole che si ripeta un’esperienza analoga a quella che si era recentemente conclusa in Bosnia (nel 1995 con gli accordi di Dayton), e non desidera che un conflitto civile si ripercuota nuovamente su un’altra popolazione musulmana, ossia gli Albanesi del Kosovo (173).

Come si evince anche da una successiva telefonata con il premier britannico (27 agosto 1998), Clinton era seriamente preoccupato che la debolezza fisica e politica di Eltsin, potesse portare ad una involuzione in Russia: “se essi [i Russi] avranno un leader dittatoriale, sarà molto più difficile trattare con loro sul Kosovo […]” (190). Dunque, per l’America la futura scelta di agire al di fuori della legalità internazionale con la NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia – certamente uno dei punti più roventi all’interno delle critiche mosse all’epoca e successivamente agli USA, venne dettata da logiche di politica internazionale, ossia (in ultima istanza) evitare una nuova dittatura in Russia (peraltro Clinton temeva che quest’ultima stesse “diventando come l’Africa”, ossia pur ricevendo i prestiti dal Fondo Monetario Internazionale, c’era una costante fuga di capitali verso l’Europa), con conseguente instabilità regionale e globale. Inoltre trapela, da parte del Presidente americano, un certo disagio nonché determinazione nel voler evitare un conflitto civile (dopo l’esperienza bosniaca – Sarajevo, Srebrenica ecc.) in cui fosse un popolo di fede islamica ad essere vittima.

Nei prossimi episodi si vedrà come non ci fosse l’intenzione di liquidare fisicamente Milosevic (ritenuto un folle), quanto piuttosto si immaginava una sua eventuale fuga in Russia o Bielorussia (in effetti i suoi famigliari, dopo la caduta del regime, trovarono rifugio a Mosca), sebbene non escludesse affatto una sua permanenza al potere. Si vedrà dei timori di Clinton derivanti dall’esperienza drammatica in Somalia, dei timori di “talpe” nella NATO (nel fornire la lista degli obiettivi alla Serbia), della paura che i Russi fornissero armi ai Serbi, della gestione del flusso di profughi provenienti dal Kosovo (si reputava che 1.000 $ di spesa per profugo, se comparato alle spese in armi, non fosse molto), della forte attenzione rivolta verso i media (nel comunicare il conflitto in maniera “corretta”) e altro ancora. Per inciso, Clinton era turbato dal fatto che durante i bombardamenti i media italiani (e l’opinione pubblica) fossero troppo blandi nel sostenere l’operazione della NATO.

Fine del primo episodio.

Christian Costamagna

Another unnecessary election in Serbia

Florian Bieber

VUCIC MIHAJOVIC STEFANOVIC GASIC MIROVIC One man show (source N1)

Serbia has held parliamentary elections in 1990, 1992, 1993, 1997, 2000, 2003, 2007, 2008, 2012, 2014 and will hold early elections in  2016. This is not to mention the elections of the parliament of the Federal Republic of Yugoslavia in 1992, 1992/3, 1996 and 2000.

A citizen who turned 18 in 1990 thus could vote 15 times for parliament in two and a half decades, not to mention the ten presidential elections since 1990. If the frequency of elections where a standard of the quality of democracy,  Serbia would be a great democracy–it is not. Of the 11 Serbian parliamentary elections in the 26 years since the introduction of a multiparty system, 7 were early elections. Some where held because the governing coalition broke apart (i.e. 2008), but most were the result of the ruling party trying to secure an advantage by calling early elections.None…

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Serbia: segnali di ingerenze straniere

 

La questione delle ingerenze delle grandi potenze nei Balcani è un tema ampiamente dibattuto nella storiografia. Dal XIX secolo in avanti, con l’indebolimento dell’Impero Ottomano, passando per le Guerre Balcaniche e le due Guerre Mondiali, sino ai conflitti degli anni ’90 del secolo scorso, l’influenza di forze esterne nell’area dell’Europa sud-orientale si può considerare una costante. Gli attori locali, ossia dei Balcani, in determinate circostanze, hanno (anche) avuto un ruolo attivo nel ricercare, a seconda degli interessi specifici contingenti e delle fazioni, il supporto strategico delle suddette potenze.

A partire dagli anni ’90, per via della debolezza della Russia in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica da un lato, e delle divisioni interne all’UE dall’altro, l’impressione superficiale che si potrebbe ricavare è che gli Stati Uniti siano da allora l’unica potenza con una reale capacità di condizionare le politiche ed i rapporti di forza nell’area. Ovviamente questa visione non rappresenta la realtà nelle sua interezza, dato che da allora, sia alcuni singoli Paesi europei, sia l’UE stessa nel suo insieme, soprattutto nell’ambito degli scambi economici, hanno assunto un’importanza rilevante.

In questo abbozzo molto generale, dovremmo aggiungere che, nonostante il basso profilo dovuto ad una economia in crisi ed alla propria instabilità politica, la Russia, sia durante la guerra in Bosnia (1992-1995), che durante la Guerra del Kosovo (1999), venne considerata dagli Americani come lo stato “garante” della Serbia nello spazio post-jugoslavo. Così, in virtù della riappropriazione della scena internazionale da parte della Russia negli ultimi anni, con un ruolo decisamente più assertivo (rispetto al recente passato), i Balcani sono divenuti oggetto di dispute e contese, in particolare la loro lealtà e l’eventuale futura affiliazione al blocco euro-atlantico.

Sebbene negli ultimi quindici anni circa la situazione sul terreno, nonché quella internazionale, sia mutata, e i leader politici della Serbia non smettano di ripetere il mantra del “cammino verso l’UE”, sotto il profilo militare Belgrado si sforza di mantenere una sorta di neutralità, mostrando un atteggiamento ondivago ed incerto in politica estera. Questo implica che la tipica retorica applicata ai Paesi dell’Europa Orientale sull’integrazione nelle istituzioni euro-atlantiche (ossia UE e NATO) in Serbia non ha trovato un terreno favorevole. Secondo un sondaggio IPSOS realizzato lo scorso mese (dicembre 2015), il 72% degli intervistati ha dichiarato di avere fiducia nella Russia, il 25% verso l’UE e solamente il 7% verso la NATO. Come rileva il sondaggio, una fetta consistente della popolazione in Serbia crede che con l’UE sia positivo fare affari (o magari viverci), però la Russia (nonostante solo il 5% delle esportazioni della Serbia sia diretto verso Mosca, contro il 60% diretto verso l’UE), dato che continua a giocare il ruolo di protettrice “simbolica” e garante di ultima istanza della Serbia (ad esempio, lo scorso anno, in sede ONU, la Russia ha ostacolato l’ingresso del Kosovo nell’UNESCO) gode di una notevole simpatia popolare. Ovviamente questi sentimenti favorevoli nei confronti di Mosca si riflettono sull’elettorato e conseguentemente nei partiti politici e all’interno degli stessi (nel partito di maggioranza guidato da Vucic, l’SNS, sono presenti varie “correnti”, ossia filo-UE, filo-russe e filo-atlantiche). Il ragionamento che sta a monte della simpatia di molti cittadini serbi verso la Russia può essere banalizzato in questo modo: “la Russia, a differenza dell’America/NATO, non ci ha bombardati e non ci ha tolto una parte del territorio nazionale (cioè il Kosovo)”.

Negli ultimi giorni, uno dei temi che ha sollevato uno strascico mediatico di proporzioni interessanti, è legato all’eventuale acquisizione da parte della Serbia di lanciarazzi russi, sebbene sia necessario ripercorrere, brevemente, quali dinamiche abbiano condotto a questa situazione.

Da alcuni mesi, i due “garanti” esterni (regionali) della pace in Bosnia ed Erzegovina, ossia la Croazia e la Serbia, stanno rilanciando (con forte impatto nei media locali) una corsa alla modernizzazione ed al riarmo dei rispettivi eserciti. Se si considera che la Croazia è membro dell’UE e della NATO, e se dovessimo valutare come genuine le dichiarazioni delle autorità politiche della Serbia a proposito del loro cammino verso l’adesione all’UE, risulta quantomeno incongrua l’esibizione di simili retoriche guerresche.

La Croazia dovrebbe ottenere dei lanciamissili dagli USA a titolo gratuito (sebbene i razzi dovranno poi essere acquistati), con un raggio d’azione di circa 300 km, mutando potenzialmente il rapporto di forze sul campo, sotto il profilo strategico, nell’area dei Balcani Occidentali. La Serbia, dal canto proprio, non intende esser da meno, così sono in corso da tempo delle trattative per l’acquisto di lanciarazzi dalla Russia. La pubblicazione di vari articoli bellicosi sulle prime pagine dei giornali, in cui si rivendica la maggiore capacità di fuoco dei rispettivi eserciti e delle nuove armi in fase di acquisto/produzione (come nel caso dei nuovi obici semoventi), non difetta. Lo scambio di accuse e sospetti su chi sia il reale obiettivo dei razzi, tra i Ministri degli Esteri dei due Paesi che nell’ultimo ventennio hanno garantito la pace in Bosnia, ha assunto toni vagamente surreali. Il Ministro degli Esteri della Serbia, Ivica Dacic, ha pubblicamente dichiarato che con ogni probabilità il reale obiettivo dei missili croati non può che essere il suo Paese (o la Bosnia ed Erzegovina).

Una possibile spiegazione di tali atteggiamenti così poco consoni a membri/eventuali membri dell’UE è da ricercarsi, sotto il profilo interno, all’adozione, da parte della politica a Zagabria e a Belgrado, di una retorica nazionalista e demagogica perché i loro governi paiono non in grado di trovare soluzioni alle rispettive crisi economiche e sociali (oltre al clima da campagna elettorale semi-permanente – appena conclusasi in Croazia, e attualmente in corso in Serbia). In effetti la polemica in corso potrebbe rivelarsi una farsa, una bolla di sapone pronta ad esplodere.

Su questo sfondo, il vice-premier russo Dmitry Rogozin ha incontrato a Belgrado nei giorni scorsi (11 e 12 gennaio) le massime cariche dello Stato, prendendo parte ad una commissione intergovernativa congiunta sulle relazioni commerciali, economiche, tecniche e scientifiche. Sebbene non sia stato reso noto il contenuto specifico di quanto discusso, al termine del colloquio con Aleksandar Vucic, Rogozin ha donato al premier serbo un modellino del lanciarazzi russo S-300. Secondo Rogozin, nei Balcani “non c’è bisogno di una militarizzazione”, “non gli piace la militarizzazione della Croazia”, ed il suo Paese è disposto ad aiutare la Serbia nell’affrontare le spese dell’eventuale acquisto delle costose armi. Il vice-premier russo ha mostrato scetticismo a proposito della capacità della NATO di poter apportare maggiore sicurezza e pace nella regione, asserendo che la NATO è un relitto della Guerra fredda. Rogozin afferma peraltro che la Russia vede con preoccupazione l’espansione della NATO nei Balcani (un processo “pericoloso e provocatorio”), reputando l’eventuale adesione del Montenegro “inaccettabile”, così come quella della Macedonia.

maketa

Inoltre Rogozin ha sottolineato che se la Serbia avesse avuto un simile sistema di difesa già nel 1999, “non ci sarebbero stati edifici in macerie a Belgrado e nelle altre città” del Paese. Vucic afferma, dal canto suo, che la Serbia è pronta a rinunciare all’acquisto degli S-300, a patto però che anche Zagabria sia disposta a interrompere il proprio riarmo, sottolineando che sarebbe meglio spendere il denaro destinato alle armi ad altre voci del budget nazionale. Infine, Rogozin si è lanciato in illazioni sul futuro di Belgrado, sostenendo che qualora il Paese dovesse aderire all’UE, i recenti fatti di Colonia potrebbero ripetersi anche in Serbia.  Dallo stesso partito del premier Vucic, non sono mancate le critiche, tant’è vero che Zorana Mihajlovic, vice-premier nonché vicepresidente dell’SNS, ha replicato affermando che Rogozin dovrebbe badare al proprio Paese. In una delle esternazioni del politico russo, non è di certo passato inosservato il fatto che egli abbia utilizzato il termine “alleato” per riferirsi alla Serbia. Infatti, la Serbia, oltre a promuovere una politica di neutralità, non fa parte formalmente di alcuna alleanza militare con la Russia (la Serbia gode dello status di “osservatore” nell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, oltre ad aver sottoscritto la Partnership for Peace con la NATO e, successivamente, l’Individual Partnership Action Plan).

Durante il soggiorno a Belgrado, in occasione della visita di Rogozin, è stato inoltre firmato un accordo per la creazione di un centro di riparazione di elicotteri militari di produzione russa e sovietica, che potrebbe essere utilizzato anche da altri Paesi europei, Balcani inclusi, che hanno in dotazione simili velivoli. Rogozin, in un’intervista rilasciata a Sputnik, afferma che il nuovo centro potrà essere utilizzato anche per i mezzi civili, e sarà un investimento economico vantaggioso per entrambi i partner. Nel tentativo di sdrammatizzare il fatto che la Serbia stia rafforzando i legami con la Russia nel settore dell’industria bellica, il vice-premier russo ha rammentato che anche gli Stati Uniti acquistano i loro elicotteri perché particolarmente adatti per le missioni in Afghanistan.

Immancabili ovviamente le reazioni. Tomislav Karamarko, leader dell’HDZ croato (conservatori) e futuro membro del governo di Zagabria, ha gettato acqua sul fuoco, richiamando l’attenzione a coltivare buone relazioni tra vicini e la collaborazione economica. In Serbia, la fazione atlantista ha criticato le esternazioni di Rogozin e Vucic, mettendone in evidenza le contraddizioni a proposito degli impegni derivanti dagli Accordi di Dayton in materia di controllo degli armamenti nella regione, oltre alle linee di politica da adottare (da parte di Belgrado) in armonia con i Paesi della UE. La destra ultra-nazionalista, come ad esempio il movimento Dveri, ha domandato le dimissioni di Zorana Mihajlovic per via della replica a Rogozin, affermando che sarebbe meglio evitare simili atteggiamenti scarsamente diplomatici proprio in un momento in cui la Serbia necessita delle armi russe, liquidando la vice-premier serba come “un agente straniero in Serbia”.

Nel frattempo, l’ombra di influenze provenienti dalle grandi potenze si allunga anche sul vicino Montenegro. Da mesi sono in corso delle proteste contro il governo da parte dell’opposizione (spesso caratterizzata come filo-russa), che hanno assunto una venatura fortemente contraria all’adesione del Paese adriatico alla NATO. Tuttavia, l’opposizione ha dalla propria un non indifferente vantaggio, perché il primo ministro Milo Djukanovic, che ha ricoperto vari ruoli di potere sostanzialmente dal gennaio 1989, è accusato di corruzione e di aver creato un sistema clientelare legato con la malavita. Djukanovic, che si trovò alla fine degli anni ’80 dalla parte della Rivoluzione antiburocratica guidata da Slobodan Milosevic, assieme al suo amico Momir Bulatovic, verso la fine degli anni ’90 circa, decise di scaricare Belgrado e di cercare il sostegno nell’Occidente. Non a caso, nell’estate del 2000, circolavano speculazioni su di un possibile intervento delle forze di sicurezza per estromettere il regime di Podgorica da parte della Serbia.

Le pesanti accuse che pendono sul capo di Djukanovic, suggellate peraltro da una autorevole ONG, che lo ha recentemente indicato come “uomo dell’anno [2015] nel crimine organizzato”, fanno di lui, con ogni probabilità, uno scomodo alleato per i governi dei Paesi della NATO (essendo Djukanovic apertamente favorevole all’ingresso nell’Alleanza atlantica). Curiosamente (sebbene occorra considerare il contesto attuale, ossia il termine del secondo e ultimo mandato presidenziale di Barack Obama), lo scorso 12 gennaio (alle 12:52) la pagina Facebook dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Podgorica ha pubblicato un post sibillino, recante, in inglese e montenegrino, le seguenti frasi: “Il concetto di presidente a vita piace ad alcune persone. Ma per la maggior parte di noi, un numero limitato di mandati rappresenta un buon metodo per controllare le persone al potere.” (il testo è di Stephen Kaufman, e rimanda ad un articolo su di un sito del governo americano). Non è possibile determinare se Washington stia lanciando dei segnali a Djukanovic, spingendolo ad abbandonare la scena politica perché da troppo tempo al potere – circa un quarto di secolo, però le accuse che da anni gli sono rivolte, danneggiano e intaccano profondamente la credibilità del principale sostenitore dell’adesione di Podgorica alla NATO (e, di riflesso, l’integrità dei governi dei Paesi dell’Alleanza). Al di là delle possibili speculazioni è comunque un fatto evidente che in Montenegro siano sorte delle tensioni riconducibili sia agli attori politici locali, sia alle tensioni tra Washington e Mosca.

Non è un caso dunque che Ben Rhodes (vice consigliere per la sicurezza nazionale degli USA) abbia rilasciato una dichiarazione in cui sostiene che “non sia nell’interesse della regione [dei Balcani] rimanere intrappolati in una qualche Guerra fredda tra gli USA e la Russia.” Rhodes afferma che  “gli Stati Uniti seguono la situazione nei Balcani con grande interesse, in particolare la situazione in Bosnia ed Erzegovina ed in Kosovo, soprattutto per le questioni legate alla sicurezza, ossia terrorismo e migrazioni”. Un altro funzionario USA, l’ambasciatore americano a Belgrado Michael Kirby (il cui mandato terminerà a fine mese), dal canto suo, tenta di smorzare i toni, affermando che la Serbia non necessita delle armi in questione, anzi, il denaro necessario per l’acquisto dovrebbe essere speso diversamente – sebbene aggiunga che ovviamente Belgrado è libera di comprare ciò che desidera. Egli reputa che l’attuale “crisi” tra la Croazia e la Serbia non sia in fondo così grave.

In conclusione, si potrebbe affermare che dal punto di vista politico, l’ambiguità della Serbia e della sua classe politica al governo, è da ricondursi alla ragguardevole simpatia che una fetta significativa dell’opinione pubblica serba nutre verso la Russia. A livello contingente, la campagna elettorale in corso amplifica la necessità di massimizzare il consenso nazional-popolare da parte dei partiti al governo. Tuttavia i dati relativi alle esportazioni della Serbia e degli investimenti diretti nel Paese, sono piuttosto laconici: l’UE rappresenta un partner economico strategico e fondamentale, nonostante i tentativi di attrarre capitali da alcuni Paesi arabi. Quanto a lungo potrà durare la divergenza della politica estera di Belgrado, rispetto a quella dell’UE? (si veda ad esempio il diniego della Serbia ad applicare il regime delle sanzioni alla Russia).

Dal punto di vista strategico internazionale, è evidente che la rivalità tra l’America e la Russia si ripercuota anche nei Balcani, ed in particolare in Serbia e Montenegro (oltre alla Bosnia ed Erzegovina ed alla Macedonia). L’esuberanza di Mosca, attraverso i propri emissari in visita a Belgrado e nelle sedi internazionali, nel dichiarare il proprio sostegno alla Serbia, nel corso degli ultimi anni, ha assunto una nuova dimensione. La penetrazione della propaganda russa, nella sua battaglia per conquistare i cuori e le menti dei Serbi, è sistematica e piuttosto incisiva. Non è chiaro se la Russia intenda, con il suo atteggiamento antagonista, in prospettiva, destabilizzare i Balcani per intralciare i propri rivali. Occorre però rilevare che se si dovesse realizzare nella pratica quanto implicitamente lasciato intendere da Mosca – ad esempio il controllo effettivo del Kosovo da parte di Belgrado – sarebbe sostanzialmente inevitabile un nuovo conflitto analogo o peggiore a quello del 1998-1999, con possibili gravi ricadute nella regione. La popolazione della Serbia sarebbe realmente interessata a sostenere il peso di simili azioni? La Russia, già sanzionata per via della crisi Ucraina, si lancerebbe in una simile avventura al fianco della Serbia?

Nel contempo, al di là dell’Oceano atlantico, Washington, consapevole ovviamente della gravità della situazione, pare costretta a muoversi con prudenza, cercando di difendere e consolidare la propria posizione di influenza e di portare avanti, più in sordina rispetto ai Russi, la propria agenda strategica (integrazione euro-atlantica di tutti i Paesi dei Balcani occidentali). Tuttavia è realmente un bene, per la NATO, spingere Paesi come il Montenegro o la Serbia a farne parte? I sondaggi d’opinione condotti in Serbia parlano chiaro, il consenso verso l’Alleanza militare guidata dagli USA è estremamente basso. Una forzatura da parte del vertice politico, come sta avvenendo in Montenegro, significherebbe, oltre a creare instabilità, mettere a disposizione di ufficiali militari locali informazioni sensibili, che potrebbero, per via delle loro simpatie filo-russe, trasmettere clandestinamente ai rivali moscoviti (come ai tempi della caccia titina ai cominformisti).

Al netto di queste considerazioni, tenendo a mente l’evoluzione delle relazioni nella sfera post-jugoslava (non da ultimo il procedere, per quanto lento, verso l’UE della Serbia stessa, il dialogo con il Kosovo mediato da Bruxelles, la mediazione dell’UE in Macedonia per risolvere la crisi politica, il rilancio del processo di adesione in Bosnia ed Erzegovina ecc.), e senza scordare il recente passato (le guerre negli anni ’90), risulta complesso interpretare il rumore mediatico e le boutade dei politici a proposito dell’ammodernamento degli eserciti della Croazia e della Serbia. Nonostante il clamore, resta il fatto che questi due Paesi, che dovrebbero garantire la pace in Bosnia, parlino di missili balistici e corsa agli armamenti come se ci si stesse preparando per un nuovo conflitto. La situazione politica interna in Montenegro (ed in Macedonia) resta tesa e incerta. In Bosnia il presidente della Repubblica serba di Bosnia mette costantemente in discussione la sovranità e l’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina in quanto Stato. Nella regione, inoltre, le condizioni socio-economiche rimangono difficili per buona parte della popolazione, generando un flusso migratorio verso l’estero alla ricerca di fortuna. Inoltre, circa settecentomila rifugiati e migranti, durante lo scorso anno, sono transitati attraverso i Balcani Occidentali. Supponendo che nei prossimi mesi il flusso non cesserà perché la via dei Balcani è attualmente quella più sicura, non si possono escludere delle tensioni interne e delle ricadute sui rapporti di vicinato. Non da ultimo, nel più ampio contesto della “lotta al terrorismo” (ISIS e affini), i Balcani vengono rappresentati – soprattutto nei media generalisti italiani (in particolare nelle ultime settimane), come un terreno potenzialmente fertile per il reclutamento di volontari disposti a combattere per il Califfato, sebbene siano i Balcani stessi ad essere periodicamente minacciati dai terroristi.

È prematuro trarre delle conclusioni affrettate, perché è possibile che un eventuale miglioramento dei rapporti tra USA e Russia (magari in seguito alle elezioni presidenziali in America e delle elezioni parlamentari in Russia, previste entrambe verso la fine dell’anno in corso – oppure per una soluzione concordata della crisi in Siria), vada a sgonfiare la bolla delle strumentalizzazioni nei Balcani.

Christian Costamagna