Serbia: segnali di ingerenze straniere

 

La questione delle ingerenze delle grandi potenze nei Balcani è un tema ampiamente dibattuto nella storiografia. Dal XIX secolo in avanti, con l’indebolimento dell’Impero Ottomano, passando per le Guerre Balcaniche e le due Guerre Mondiali, sino ai conflitti degli anni ’90 del secolo scorso, l’influenza di forze esterne nell’area dell’Europa sud-orientale si può considerare una costante. Gli attori locali, ossia dei Balcani, in determinate circostanze, hanno (anche) avuto un ruolo attivo nel ricercare, a seconda degli interessi specifici contingenti e delle fazioni, il supporto strategico delle suddette potenze.

A partire dagli anni ’90, per via della debolezza della Russia in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica da un lato, e delle divisioni interne all’UE dall’altro, l’impressione superficiale che si potrebbe ricavare è che gli Stati Uniti siano da allora l’unica potenza con una reale capacità di condizionare le politiche ed i rapporti di forza nell’area. Ovviamente questa visione non rappresenta la realtà nelle sua interezza, dato che da allora, sia alcuni singoli Paesi europei, sia l’UE stessa nel suo insieme, soprattutto nell’ambito degli scambi economici, hanno assunto un’importanza rilevante.

In questo abbozzo molto generale, dovremmo aggiungere che, nonostante il basso profilo dovuto ad una economia in crisi ed alla propria instabilità politica, la Russia, sia durante la guerra in Bosnia (1992-1995), che durante la Guerra del Kosovo (1999), venne considerata dagli Americani come lo stato “garante” della Serbia nello spazio post-jugoslavo. Così, in virtù della riappropriazione della scena internazionale da parte della Russia negli ultimi anni, con un ruolo decisamente più assertivo (rispetto al recente passato), i Balcani sono divenuti oggetto di dispute e contese, in particolare la loro lealtà e l’eventuale futura affiliazione al blocco euro-atlantico.

Sebbene negli ultimi quindici anni circa la situazione sul terreno, nonché quella internazionale, sia mutata, e i leader politici della Serbia non smettano di ripetere il mantra del “cammino verso l’UE”, sotto il profilo militare Belgrado si sforza di mantenere una sorta di neutralità, mostrando un atteggiamento ondivago ed incerto in politica estera. Questo implica che la tipica retorica applicata ai Paesi dell’Europa Orientale sull’integrazione nelle istituzioni euro-atlantiche (ossia UE e NATO) in Serbia non ha trovato un terreno favorevole. Secondo un sondaggio IPSOS realizzato lo scorso mese (dicembre 2015), il 72% degli intervistati ha dichiarato di avere fiducia nella Russia, il 25% verso l’UE e solamente il 7% verso la NATO. Come rileva il sondaggio, una fetta consistente della popolazione in Serbia crede che con l’UE sia positivo fare affari (o magari viverci), però la Russia (nonostante solo il 5% delle esportazioni della Serbia sia diretto verso Mosca, contro il 60% diretto verso l’UE), dato che continua a giocare il ruolo di protettrice “simbolica” e garante di ultima istanza della Serbia (ad esempio, lo scorso anno, in sede ONU, la Russia ha ostacolato l’ingresso del Kosovo nell’UNESCO) gode di una notevole simpatia popolare. Ovviamente questi sentimenti favorevoli nei confronti di Mosca si riflettono sull’elettorato e conseguentemente nei partiti politici e all’interno degli stessi (nel partito di maggioranza guidato da Vucic, l’SNS, sono presenti varie “correnti”, ossia filo-UE, filo-russe e filo-atlantiche). Il ragionamento che sta a monte della simpatia di molti cittadini serbi verso la Russia può essere banalizzato in questo modo: “la Russia, a differenza dell’America/NATO, non ci ha bombardati e non ci ha tolto una parte del territorio nazionale (cioè il Kosovo)”.

Negli ultimi giorni, uno dei temi che ha sollevato uno strascico mediatico di proporzioni interessanti, è legato all’eventuale acquisizione da parte della Serbia di lanciarazzi russi, sebbene sia necessario ripercorrere, brevemente, quali dinamiche abbiano condotto a questa situazione.

Da alcuni mesi, i due “garanti” esterni (regionali) della pace in Bosnia ed Erzegovina, ossia la Croazia e la Serbia, stanno rilanciando (con forte impatto nei media locali) una corsa alla modernizzazione ed al riarmo dei rispettivi eserciti. Se si considera che la Croazia è membro dell’UE e della NATO, e se dovessimo valutare come genuine le dichiarazioni delle autorità politiche della Serbia a proposito del loro cammino verso l’adesione all’UE, risulta quantomeno incongrua l’esibizione di simili retoriche guerresche.

La Croazia dovrebbe ottenere dei lanciamissili dagli USA a titolo gratuito (sebbene i razzi dovranno poi essere acquistati), con un raggio d’azione di circa 300 km, mutando potenzialmente il rapporto di forze sul campo, sotto il profilo strategico, nell’area dei Balcani Occidentali. La Serbia, dal canto proprio, non intende esser da meno, così sono in corso da tempo delle trattative per l’acquisto di lanciarazzi dalla Russia. La pubblicazione di vari articoli bellicosi sulle prime pagine dei giornali, in cui si rivendica la maggiore capacità di fuoco dei rispettivi eserciti e delle nuove armi in fase di acquisto/produzione (come nel caso dei nuovi obici semoventi), non difetta. Lo scambio di accuse e sospetti su chi sia il reale obiettivo dei razzi, tra i Ministri degli Esteri dei due Paesi che nell’ultimo ventennio hanno garantito la pace in Bosnia, ha assunto toni vagamente surreali. Il Ministro degli Esteri della Serbia, Ivica Dacic, ha pubblicamente dichiarato che con ogni probabilità il reale obiettivo dei missili croati non può che essere il suo Paese (o la Bosnia ed Erzegovina).

Una possibile spiegazione di tali atteggiamenti così poco consoni a membri/eventuali membri dell’UE è da ricercarsi, sotto il profilo interno, all’adozione, da parte della politica a Zagabria e a Belgrado, di una retorica nazionalista e demagogica perché i loro governi paiono non in grado di trovare soluzioni alle rispettive crisi economiche e sociali (oltre al clima da campagna elettorale semi-permanente – appena conclusasi in Croazia, e attualmente in corso in Serbia). In effetti la polemica in corso potrebbe rivelarsi una farsa, una bolla di sapone pronta ad esplodere.

Su questo sfondo, il vice-premier russo Dmitry Rogozin ha incontrato a Belgrado nei giorni scorsi (11 e 12 gennaio) le massime cariche dello Stato, prendendo parte ad una commissione intergovernativa congiunta sulle relazioni commerciali, economiche, tecniche e scientifiche. Sebbene non sia stato reso noto il contenuto specifico di quanto discusso, al termine del colloquio con Aleksandar Vucic, Rogozin ha donato al premier serbo un modellino del lanciarazzi russo S-300. Secondo Rogozin, nei Balcani “non c’è bisogno di una militarizzazione”, “non gli piace la militarizzazione della Croazia”, ed il suo Paese è disposto ad aiutare la Serbia nell’affrontare le spese dell’eventuale acquisto delle costose armi. Il vice-premier russo ha mostrato scetticismo a proposito della capacità della NATO di poter apportare maggiore sicurezza e pace nella regione, asserendo che la NATO è un relitto della Guerra fredda. Rogozin afferma peraltro che la Russia vede con preoccupazione l’espansione della NATO nei Balcani (un processo “pericoloso e provocatorio”), reputando l’eventuale adesione del Montenegro “inaccettabile”, così come quella della Macedonia.

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Inoltre Rogozin ha sottolineato che se la Serbia avesse avuto un simile sistema di difesa già nel 1999, “non ci sarebbero stati edifici in macerie a Belgrado e nelle altre città” del Paese. Vucic afferma, dal canto suo, che la Serbia è pronta a rinunciare all’acquisto degli S-300, a patto però che anche Zagabria sia disposta a interrompere il proprio riarmo, sottolineando che sarebbe meglio spendere il denaro destinato alle armi ad altre voci del budget nazionale. Infine, Rogozin si è lanciato in illazioni sul futuro di Belgrado, sostenendo che qualora il Paese dovesse aderire all’UE, i recenti fatti di Colonia potrebbero ripetersi anche in Serbia.  Dallo stesso partito del premier Vucic, non sono mancate le critiche, tant’è vero che Zorana Mihajlovic, vice-premier nonché vicepresidente dell’SNS, ha replicato affermando che Rogozin dovrebbe badare al proprio Paese. In una delle esternazioni del politico russo, non è di certo passato inosservato il fatto che egli abbia utilizzato il termine “alleato” per riferirsi alla Serbia. Infatti, la Serbia, oltre a promuovere una politica di neutralità, non fa parte formalmente di alcuna alleanza militare con la Russia (la Serbia gode dello status di “osservatore” nell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, oltre ad aver sottoscritto la Partnership for Peace con la NATO e, successivamente, l’Individual Partnership Action Plan).

Durante il soggiorno a Belgrado, in occasione della visita di Rogozin, è stato inoltre firmato un accordo per la creazione di un centro di riparazione di elicotteri militari di produzione russa e sovietica, che potrebbe essere utilizzato anche da altri Paesi europei, Balcani inclusi, che hanno in dotazione simili velivoli. Rogozin, in un’intervista rilasciata a Sputnik, afferma che il nuovo centro potrà essere utilizzato anche per i mezzi civili, e sarà un investimento economico vantaggioso per entrambi i partner. Nel tentativo di sdrammatizzare il fatto che la Serbia stia rafforzando i legami con la Russia nel settore dell’industria bellica, il vice-premier russo ha rammentato che anche gli Stati Uniti acquistano i loro elicotteri perché particolarmente adatti per le missioni in Afghanistan.

Immancabili ovviamente le reazioni. Tomislav Karamarko, leader dell’HDZ croato (conservatori) e futuro membro del governo di Zagabria, ha gettato acqua sul fuoco, richiamando l’attenzione a coltivare buone relazioni tra vicini e la collaborazione economica. In Serbia, la fazione atlantista ha criticato le esternazioni di Rogozin e Vucic, mettendone in evidenza le contraddizioni a proposito degli impegni derivanti dagli Accordi di Dayton in materia di controllo degli armamenti nella regione, oltre alle linee di politica da adottare (da parte di Belgrado) in armonia con i Paesi della UE. La destra ultra-nazionalista, come ad esempio il movimento Dveri, ha domandato le dimissioni di Zorana Mihajlovic per via della replica a Rogozin, affermando che sarebbe meglio evitare simili atteggiamenti scarsamente diplomatici proprio in un momento in cui la Serbia necessita delle armi russe, liquidando la vice-premier serba come “un agente straniero in Serbia”.

Nel frattempo, l’ombra di influenze provenienti dalle grandi potenze si allunga anche sul vicino Montenegro. Da mesi sono in corso delle proteste contro il governo da parte dell’opposizione (spesso caratterizzata come filo-russa), che hanno assunto una venatura fortemente contraria all’adesione del Paese adriatico alla NATO. Tuttavia, l’opposizione ha dalla propria un non indifferente vantaggio, perché il primo ministro Milo Djukanovic, che ha ricoperto vari ruoli di potere sostanzialmente dal gennaio 1989, è accusato di corruzione e di aver creato un sistema clientelare legato con la malavita. Djukanovic, che si trovò alla fine degli anni ’80 dalla parte della Rivoluzione antiburocratica guidata da Slobodan Milosevic, assieme al suo amico Momir Bulatovic, verso la fine degli anni ’90 circa, decise di scaricare Belgrado e di cercare il sostegno nell’Occidente. Non a caso, nell’estate del 2000, circolavano speculazioni su di un possibile intervento delle forze di sicurezza per estromettere il regime di Podgorica da parte della Serbia.

Le pesanti accuse che pendono sul capo di Djukanovic, suggellate peraltro da una autorevole ONG, che lo ha recentemente indicato come “uomo dell’anno [2015] nel crimine organizzato”, fanno di lui, con ogni probabilità, uno scomodo alleato per i governi dei Paesi della NATO (essendo Djukanovic apertamente favorevole all’ingresso nell’Alleanza atlantica). Curiosamente (sebbene occorra considerare il contesto attuale, ossia il termine del secondo e ultimo mandato presidenziale di Barack Obama), lo scorso 12 gennaio (alle 12:52) la pagina Facebook dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Podgorica ha pubblicato un post sibillino, recante, in inglese e montenegrino, le seguenti frasi: “Il concetto di presidente a vita piace ad alcune persone. Ma per la maggior parte di noi, un numero limitato di mandati rappresenta un buon metodo per controllare le persone al potere.” (il testo è di Stephen Kaufman, e rimanda ad un articolo su di un sito del governo americano). Non è possibile determinare se Washington stia lanciando dei segnali a Djukanovic, spingendolo ad abbandonare la scena politica perché da troppo tempo al potere – circa un quarto di secolo, però le accuse che da anni gli sono rivolte, danneggiano e intaccano profondamente la credibilità del principale sostenitore dell’adesione di Podgorica alla NATO (e, di riflesso, l’integrità dei governi dei Paesi dell’Alleanza). Al di là delle possibili speculazioni è comunque un fatto evidente che in Montenegro siano sorte delle tensioni riconducibili sia agli attori politici locali, sia alle tensioni tra Washington e Mosca.

Non è un caso dunque che Ben Rhodes (vice consigliere per la sicurezza nazionale degli USA) abbia rilasciato una dichiarazione in cui sostiene che “non sia nell’interesse della regione [dei Balcani] rimanere intrappolati in una qualche Guerra fredda tra gli USA e la Russia.” Rhodes afferma che  “gli Stati Uniti seguono la situazione nei Balcani con grande interesse, in particolare la situazione in Bosnia ed Erzegovina ed in Kosovo, soprattutto per le questioni legate alla sicurezza, ossia terrorismo e migrazioni”. Un altro funzionario USA, l’ambasciatore americano a Belgrado Michael Kirby (il cui mandato terminerà a fine mese), dal canto suo, tenta di smorzare i toni, affermando che la Serbia non necessita delle armi in questione, anzi, il denaro necessario per l’acquisto dovrebbe essere speso diversamente – sebbene aggiunga che ovviamente Belgrado è libera di comprare ciò che desidera. Egli reputa che l’attuale “crisi” tra la Croazia e la Serbia non sia in fondo così grave.

In conclusione, si potrebbe affermare che dal punto di vista politico, l’ambiguità della Serbia e della sua classe politica al governo, è da ricondursi alla ragguardevole simpatia che una fetta significativa dell’opinione pubblica serba nutre verso la Russia. A livello contingente, la campagna elettorale in corso amplifica la necessità di massimizzare il consenso nazional-popolare da parte dei partiti al governo. Tuttavia i dati relativi alle esportazioni della Serbia e degli investimenti diretti nel Paese, sono piuttosto laconici: l’UE rappresenta un partner economico strategico e fondamentale, nonostante i tentativi di attrarre capitali da alcuni Paesi arabi. Quanto a lungo potrà durare la divergenza della politica estera di Belgrado, rispetto a quella dell’UE? (si veda ad esempio il diniego della Serbia ad applicare il regime delle sanzioni alla Russia).

Dal punto di vista strategico internazionale, è evidente che la rivalità tra l’America e la Russia si ripercuota anche nei Balcani, ed in particolare in Serbia e Montenegro (oltre alla Bosnia ed Erzegovina ed alla Macedonia). L’esuberanza di Mosca, attraverso i propri emissari in visita a Belgrado e nelle sedi internazionali, nel dichiarare il proprio sostegno alla Serbia, nel corso degli ultimi anni, ha assunto una nuova dimensione. La penetrazione della propaganda russa, nella sua battaglia per conquistare i cuori e le menti dei Serbi, è sistematica e piuttosto incisiva. Non è chiaro se la Russia intenda, con il suo atteggiamento antagonista, in prospettiva, destabilizzare i Balcani per intralciare i propri rivali. Occorre però rilevare che se si dovesse realizzare nella pratica quanto implicitamente lasciato intendere da Mosca – ad esempio il controllo effettivo del Kosovo da parte di Belgrado – sarebbe sostanzialmente inevitabile un nuovo conflitto analogo o peggiore a quello del 1998-1999, con possibili gravi ricadute nella regione. La popolazione della Serbia sarebbe realmente interessata a sostenere il peso di simili azioni? La Russia, già sanzionata per via della crisi Ucraina, si lancerebbe in una simile avventura al fianco della Serbia?

Nel contempo, al di là dell’Oceano atlantico, Washington, consapevole ovviamente della gravità della situazione, pare costretta a muoversi con prudenza, cercando di difendere e consolidare la propria posizione di influenza e di portare avanti, più in sordina rispetto ai Russi, la propria agenda strategica (integrazione euro-atlantica di tutti i Paesi dei Balcani occidentali). Tuttavia è realmente un bene, per la NATO, spingere Paesi come il Montenegro o la Serbia a farne parte? I sondaggi d’opinione condotti in Serbia parlano chiaro, il consenso verso l’Alleanza militare guidata dagli USA è estremamente basso. Una forzatura da parte del vertice politico, come sta avvenendo in Montenegro, significherebbe, oltre a creare instabilità, mettere a disposizione di ufficiali militari locali informazioni sensibili, che potrebbero, per via delle loro simpatie filo-russe, trasmettere clandestinamente ai rivali moscoviti (come ai tempi della caccia titina ai cominformisti).

Al netto di queste considerazioni, tenendo a mente l’evoluzione delle relazioni nella sfera post-jugoslava (non da ultimo il procedere, per quanto lento, verso l’UE della Serbia stessa, il dialogo con il Kosovo mediato da Bruxelles, la mediazione dell’UE in Macedonia per risolvere la crisi politica, il rilancio del processo di adesione in Bosnia ed Erzegovina ecc.), e senza scordare il recente passato (le guerre negli anni ’90), risulta complesso interpretare il rumore mediatico e le boutade dei politici a proposito dell’ammodernamento degli eserciti della Croazia e della Serbia. Nonostante il clamore, resta il fatto che questi due Paesi, che dovrebbero garantire la pace in Bosnia, parlino di missili balistici e corsa agli armamenti come se ci si stesse preparando per un nuovo conflitto. La situazione politica interna in Montenegro (ed in Macedonia) resta tesa e incerta. In Bosnia il presidente della Repubblica serba di Bosnia mette costantemente in discussione la sovranità e l’integrità territoriale della Bosnia ed Erzegovina in quanto Stato. Nella regione, inoltre, le condizioni socio-economiche rimangono difficili per buona parte della popolazione, generando un flusso migratorio verso l’estero alla ricerca di fortuna. Inoltre, circa settecentomila rifugiati e migranti, durante lo scorso anno, sono transitati attraverso i Balcani Occidentali. Supponendo che nei prossimi mesi il flusso non cesserà perché la via dei Balcani è attualmente quella più sicura, non si possono escludere delle tensioni interne e delle ricadute sui rapporti di vicinato. Non da ultimo, nel più ampio contesto della “lotta al terrorismo” (ISIS e affini), i Balcani vengono rappresentati – soprattutto nei media generalisti italiani (in particolare nelle ultime settimane), come un terreno potenzialmente fertile per il reclutamento di volontari disposti a combattere per il Califfato, sebbene siano i Balcani stessi ad essere periodicamente minacciati dai terroristi.

È prematuro trarre delle conclusioni affrettate, perché è possibile che un eventuale miglioramento dei rapporti tra USA e Russia (magari in seguito alle elezioni presidenziali in America e delle elezioni parlamentari in Russia, previste entrambe verso la fine dell’anno in corso – oppure per una soluzione concordata della crisi in Siria), vada a sgonfiare la bolla delle strumentalizzazioni nei Balcani.

Christian Costamagna

 

 

 

 

 

3 thoughts on “Serbia: segnali di ingerenze straniere

  1. Basta dire solo che M270 MLRS sistema che intende a prendere Croazia e esclusivamente di natura offensiva invece S-300 che dovrebbe essere installato in Serbia è esclusivamente di natura difensiva. 1+1=2 mi sembra

    • Personalmente non mi fido della politica portata avanti nei balcani dagli americani e dall’Europa, lo scenari Geopolitico mondiale ne è testimone.

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