Oluja: un capitolo drammatico di una tragedia evitabile.

Nelle scorse settimane si è svolto, in occasione del ventesimo anniversario dell’Operazione “Tempesta”  (Oluja in croato/serbo/bosniaco) un esempio da manuale di manipolazione multipla della memoria pubblica, partendo da un evento storico. La storia, una volta data in pasto all’arena politica diventa un menù alla carta dove poter selezionare a piacimento un evento storico, decontestualizzarlo slegandolo da ciò che l’ha prodotto, e impacchettarlo attraverso una più o meno sapiente operazione di marketing attraverso i canali comunicativi. Lo scopo ultimo della politica e dell’establishment, quando utilizza la storia, è quello di legittimare il presente e accampare pretese sul futuro. L’Operazione “Tempesta” non fa affatto eccezione a queste dinamiche ampiamente prevedibili.

Le istituzioni della Croazia hanno scelto di celebrare in pompa magna “Oluja” attraverso una serie di eventi, in particolare una parata militare a Zagabria (4 agosto), e una ulteriore commemorazione ufficiale nella città di Knin (5 agosto). Oluja, nella narrazione ufficiale nazionale croata, è intesa come la fase conclusiva della Guerra patriottica (1991-1995), che ha liberato il paese dagli occupanti (i serbi). Sempre nella narrazione ufficiale croata, Oluja è quella singola operazione militare che ha riconsegnato la sovranità alla Croazia, dato che circa un quarto del territorio era sotto il controllo dei ribelli serbi, ossia alla Repubblica serba di Krajina, con capitale Knin (che si potrebbe, per certi versi, paragonare al cosiddetto Stato federale della Nuova Russia). In Croazia attualmente il clima politico si sta arroventando, perché a fine anno (o all’inizio del prossimo) sono attese le elezioni politiche. I partiti, all’opposizione o al governo che siano, stanno cercando di professare il loro genuino patriottismo, sperando di raccogliere il consenso degli elettori con strategie a buon mercato. Nei giorni precedenti la commemorazione di Oluja, le prime pagine dei giornali erano dedicate alla questione dell’arbitrato internazionale per la questione dei confini tra Croazia e Slovenia nel golfo di Pirano (a proposito dello scandalo sorto in seguito alla pubblicazione di intercettazioni telefoniche di dubbia legittimità, secondo le quali sarebbe emerso un presunto complotto sloveno a scapito della Croazia), stimolando la sensibilità nazionale degli elettori croati.  Non sono mancate le critiche da parte della comunità dei serbi di Croazia a proposito delle celebrazioni della vittoria militare del 1995, così come non sono mancati gli eccessi di nazionalismo croato a Knin – che in Italia verrebbero sanzionate come apologia di fascismo (il concerto di Perkovic Thompson, certo, e slogan quali “non beviamo vino ma il sangue dei serbi di Knin”, che in lingua croata fa rima ecc.), ed episodi sgradevoli davanti al Teatro di Fiume in occasione di una rappresentazione teatrale ritenuta scarsamente patriottica da elementi dell’estrema destra. In un contesto economico particolarmente difficile, il carburante più semplice da adottare è quello nazionalista, demagogico, ed il centro sinistra al governo non fa eccezione. Mentre la parata militare di Zagabria è stata percepita ed intesa come espressione della volontà del governo di centro-sinistra, la celebrazione di Knin era rivolta ad un pubblico di destra, di reduci della guerra patriottica. Ed è proprio a Knin che la presidentessa della Croazia, Kolinda Grabar-Kitarovic, nel suo discorso ha solleticato la propria platea, sostenendo che la Croazia, a differenza di altri (ossia la Serbia, con il Vidovdan) festeggia le vittorie e non le sconfitte, che la guerra era proprio lì, e non “laggiù lontano” (facendo così il verso ad una nota canzone serba della Prima guerra mondiale). La Kitarovic non ha risparmiato le critiche all’attuale classe politica della Serbia, sostenendo che sono le stesse persone che 20 anni fa supportavano il regime di Slobodan Milosevic (affermazione indubbiamente autentica), che è quello che ha causato le sofferenze del popolo croato, aggiungendo che non si possono mettere sullo stesso piano vittime e aggressori (affossando così la proposta del premier serbo Vucic a proposito di indire una giornata per commemorare tutte le vittime di guerra della ex Jugoslavia). La presidentessa croata reputa che l’operazione militare Oluja sia stata “pulita come una lacrima”. E’ evidente che un’affermazione di questo tipo è fuorviante, e vedremo oltre perché. Tuttavia l’immagine che si vuole trasmettere da parte della massima carica dello stato croato è che la Croazia, 20 anni or sono, ha legittimamente liberato il proprio territorio nazionale, il resto non è contemplato.

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L’altra faccia della medaglia – commemorazioni in Serbia

Contemporaneamente, la Serbia e la Repubblica serba di Bosnia hanno deciso di commemorare il 5 agosto la Giornata del lutto, insomma una sorta di Giorno del ricordo (esodo degli italiani dall’Istria, Quarnero e Dalmazia). Già, perché mentre i vicini croati festeggiano la vittoria, a Belgrado e Banja Luka si piangono le vittime. Per inciso, le vittime, nella narrazione ufficiale serba, sono le oltre 200 mila persone, i serbi della Krajina, che durante (e nelle settimane successive) l’operazione Oluja hanno abbandonato in fretta e furia le loro case, e le diverse centinaia di vittime, a voler essere decisamente restrittivi (le cifre, come sempre accade, oscillano sensibilmente), prevalentemente anziani che decisero di non abbandonare le loro abitazioni, vittime e oggetto di ritorsioni e macabre vendette. Il flusso di profughi cercò rifugio, fuggendo sui mezzi di trasporto disponibili, quali trattori e altri mezzi di fortuna, e si riversò nella Repubblica serba di Bosnia e in Serbia. Il premier della Serbia Aleksandar Vucic e il presidente della Repubblica serba di Bosnia Milorad Dodik hanno partecipato ad una commemorazione comune sul confine tra la Serbia e la Bosnia, mentre il presidente della Serbia, Tomislav Nikolic ha, senza troppi giri di parole, paragonato l’operazione Oluja allo Stato indipendente della Croazia (lo stato fantoccio fascista creato durante la Seconda guerra mondiale). Nikolic non ha risparmiato neppure critiche all’Occidente in quanto complice dell’Operazione Oluja, oltre a sostenere che solo la Serbia porge la mano (anche la Grabar-Kitarovic ha affermato di tendere la mano alla Serbia), e ha lamentato la questione delle proprietà dei serbi che hanno abbandonato la Croazia e il tema delle loro pensioni.

Se noi prendessimo in esame la narrazione ufficiale e istituzionale della Croazia, e quella della Serbia, potremmo credere che sommandole otterremmo la “verità” storica. In realtà, come di norma accade, la questione è più complessa e ricca di sfumature. L’utilizzo strumentale di verità parziali, la decontestualizzazione, la distorsione, i silenzi, sono parte integrante del processo di formazione della memoria degli individui e delle collettività. Ma cosa è stata l’Operazione Oluja nel 1995? Cosa ha condotto al successo di quell’operazione militare? Perché i serbi della Croazia hanno abbandonato le loro abitazioni in poche ore? Rispondere dignitosamente e puntualmente, con dovizia di particolari, a queste e altre legittime domande richiederebbe come minimo la stesura di una monografia accademica. Tuttavia non si può prescindere da una breve ricostruzione storica. Ovviamente l’esito finale della ricostruzione dipende almeno in parte, dal punto di inizio di questa storia, della narrazione. La narrazione deve trascendere la tragedia ed il dolore dei singoli individui, per cercare di attribuire un senso complessivo alle dinamiche che hanno condotto ad Oluja, ossia ricreare una adeguata dimensione storica. Certo, ma da dove iniziare? Partire dall’agosto del 1995 sarebbe fuorviante, perché si ignorerebbero gli eventi di Srebrenica, avvenuti il mese precedente. Parlare del conflitto in Croazia senza tenere conto del conflitto in Bosnia ed Erzegovina produrrebbe una visione distorta e parziale. Partire dallo scoppio della guerra in Croazia nel 1991? Oppure partire dalla dissoluzione dello stato Jugoslavo? Magari dalla caduta del Muro di Berlino? Oppure dal discorso di Milosevic a Kosovo Polje nel 1989? Oppure dalla morte del maresciallo Tito? Meglio dare peso agli eventi interni oppure a quelli internazionali? Per rendere giustizia ad una ricostruzione storiografica contestualizzante e complessiva degli eventi che hanno condotto ad Oluja, il rischio è di dover eventualmente risalire quantomeno alla nascita del Regno dei croati e sloveni, se non alla fase finale degli imperi che l’hanno preceduta. Tuttavia non è una buona ragione per voler rinunciare ad una sintesi.

Come si è giunti a “Oluja”?

L’operazione Oluja è stata un’operazione militare condotta in un contesto generale di guerra, a sua volta iniziata esplicitamente nel 1991. Dunque partiremo dalla situazione di pace che ha preceduto la guerra. Quando è terminata la pace e quando è iniziato il conflitto? La domanda è meno peregrina di quanto possa sembrare in apparenza. Innanzitutto è bene ribadire che il conflitto militare sul larga scala inizia apertamente nell’estate del 1991, certo, però all’interno di uno stato, se non vi sono conflitti e tensioni gravissime, è improbabile che i conflitti bellici scoppino all’improvviso, senza segnali. Infatti le tensioni in Jugoslavia duravano ormai da alcuni anni.

La dimensione conflittuale tra le repubbliche e province jugoslave negli anni ’80 del secolo scorso, ossia la decade che ha preceduto la dissoluzione dello stato ed il conflitto bellico, non era un’eccezione, e potevano essere assimilabili, almeno in parte, alla natura dei conflitti oggi esistenti in seno all’Unione Europea, come ad esempio la crisi greca, piuttosto che alla questione dei migranti e la loro gestione, piuttosto che la posizione della Scozia nel Regno Unito e così via. Insomma, ordinaria amministrazione, o quasi, potremmo dire. Non per questo, sino ad oggi, la Grecia è uscita dall’euro, così come la Scozia è ancora parte del Regno Unito, il Regno Unito fa parte ancora dell’UE, così come la Catalogna fa parte della monarchia spagnola ecc. In Jugoslavia, negli anni ’80, c’era una classe politica, c’erano delle divisioni di natura territoriale, così come delle correnti politiche con interessi divergenti, sebbene tutte le fazioni risolvevano i loro conflitti all’interno della Lega dei Comunisti della Jugoslavia, ossia il Partito, l’unico al potere. Nel 1981, gli albanesi del Kosovo iniziarono una serie di proteste per ottenere lo status di repubblica federale jugoslava per la loro provincia autonoma, formalmente parte della Repubblica socialista di Serbia, ma di fatto largamente autonoma al pari di una repubblica. A loro volta le repubbliche jugoslave godevano di un’ampia autonomia rispetto al centro, alla capitale Belgrado. Sebbene si chiamasse federazione, la Jugoslavia, dagli anni ’70, divenne una confederazione, il potere originario risiedeva nelle repubbliche e nelle province, e in seconda battuta conferivano il potere al centro, alla federazione, in maniera residuale. In fondo è come l’UE oggi, il potere sovrano è nei paesi membri, non nella UE in quanto tale, con la differenza che per certi versi l’UE odierna è più cementata e unita della Jugoslavia socialista sotto il profilo istituzionale e amministrativo, nonostante alcune eccezioni (ad esempio in Jugoslavia c’era un esercito federale, in UE no, ecc.). Il collante era, al di là della singola persona (Tito), il partito unico.

Ritornando alle proteste degli albanesi del Kosovo ed alle loro richieste, la classe politica jugoslava fu in grado di trovare una soluzione condivisa, ossia inviare l’esercito federale e stroncare le proteste, oltre a dichiarare lo stato d’emergenza, uccidere, torturare e imprigionare un numero imprecisato di persone. Scontentando così buona parte dell’opinione pubblica degli albanesi del Kosovo. Allo stesso tempo, e negli anni immediatamente successivi in Kosovo sorge un movimento di cittadini serbi e montenegrini che denunciavano discriminazioni e violenze da parte degli albanesi. Il tutto in un contesto di forte emigrazione (decine di migliaia in pochi anni) verso altre zone della Jugoslavia (soprattutto in Serbia) da parte di questa comunità slavo-ortodossa, sebbene le autorità di Pristina affermassero che tale flusso migratorio fosse dovuto principalmente alle gravi condizioni economiche della provincia (anche gli albanesi migravano massicciamente dal Kosovo, magari andando in Svizzera o Germania).

Un gruppo di intellettuali serbi, tra i quali potremmo citare uno dei più noti, il romanziere Dobrica Cosic, nel frattempo, in parte perché disillusi dalla promesse del socialismo, in parte per criticare la pessima gestione della grave crisi economica della Jugoslavia, iniziò a far sentire sempre più la propria voce critica ed il proprio dissenso verso il potere. La narrazione adottata fu quella del nazionalismo serbo. Il famigerato Memorandum dell’Accademica delle Scienze e delle arti di Belgrado, un caso mediatico scoppiato nel 1986, non era altro che una collezione di temi già noti dalla fine degli anni ’70, ossia la sofferenza del popolo serbo nella Jugoslavia socialista, denunciando il presunto genocidio dei serbi in Kosovo, ma anche il genocidio culturale dei serbi in Croazia. E questo è un primo tassello della storia di come si è giunti ad Oluja.

Lo stesso anno, nel 1986, un tecnocrate semi-sconosciuto sale al potere della Lega dei Comunisti della Serbia. E’ stato messo in quella posizione perché cooptato e uomo di fiducia del suo mentore politico. Era giovane, aveva ambizione, carattere, esperienza nel settore bancario. Si chiamava Slobodan Milosevic.

A metà degli anni ’80 i nazionalisti serbi cercavano una sponda con gli altri nazionalisti della Jugoslavia, tuttavia il progetto di una lotta condivisa al regime socialista naufragò ben presto. I serbi ovviamente non avevano l’esclusiva del nazionalismo, era presente anche tra gli sloveni, i croati, gli albanesi e altri. Questo fiorire dei vari nazionalismi, in un contesto di grave crisi economica e finanziaria, gli scioperi di massa, le pressioni dall’esterno (il Fondo monetario internazionale mal digeriva il default jugoslavo, sebbene il regime titoista doveva essere mantenuto a galla dagli USA per bilanciare l’URSS) impensierirono ed incupirono i comunisti jugoslavi. Il primo comunista jugoslavo, in quegli anni, che scelse deliberatamente portare alla ribalta dell’agenda la questione dei serbi del Kosovo, non essendo in grado di risolvere i problemi economici fu Milosevic. Egli riuscì, attraverso complotti, fronde, tradimenti, manipolazione mediatica, il supporto degli apparati di sicurezza, i moti di piazza, le proteste, la connivenza dei leader delle altre repubbliche jugoslave, il silenzio dell’Occidente, a scompaginare, un pezzo alla volta, in soli tre anni, l’assetto della ripartizione del potere all’interno della federazione. In questo modo guadagnò un fortissimo consenso e legittimazione nella masse in Serbia, ma si attirò le ire, ad un certo punto, dei suoi colleghi, soprattutto in Slovenia. I comunisti jugoslavi avrebbero potuto trovare qualche forma di ulteriore compromesso, forse, se la situazione internazionale fosse rimasta immutata, sfruttando la posizione di rendita della Jugoslavia tra USA e URSS, e la camicia di forza della Guerra fredda. Ma le cose, sul piano internazionale, presero una piega differente. Il processo di riforme avviato da Gorbaciov a Mosca, e, in ultima analisi, l’abbandono al loro destino dei regimi comunisti in Europa orientale nella fase finale, lasciarono una situazione di incertezza, un vuoto di potere. Certo, la Jugoslavia non era parte del blocco sovietico, tuttavia anch’essa era retta da un regime socialista, un partito unico, uno stato autoritario. D’altro canto, da vari anni i miti ed i simboli del regime socialista, in Jugoslavia, erano presi di mira e contestati da più parti. Dal mito della lotta partigiana, alla staffetta, al culto di Tito, poco alla volta i tabù erano contestati, sia dai nazionalisti, ma anche da parte della società civile come residui anti-storici di un regime dittatoriale (per certi versi, come oggi viene sistematicamente deriso il leader della Corea del Nord nei media occidentali).

E’ in quella fase, in quel momento, sul finire degli anni ’80, che l’oligarchia al potere in Jugoslavia, la borghesia rossa, i direttori delle aziende pubbliche, i quadri del partito, parte degli intellettuali, giornalisti, i servizi di sicurezza, temettero seriamente di veder messa in discussione la loro posizione di potere e privilegio nella società. Perché il pluralismo politico, le libere elezioni, avrebbero rischiato di mettere in discussione i loro benefici, le loro rendite. D’altro canto, l’opposizione era spaccata, ingenua, senza esperienza di governo, senza quadri professionali solidi e comprovati. Così lo spostamento ideologico dall’asse socialista verso quello nazionalista sembrò essere la mossa vincente, ed in effetti lo fu, ma per gli oligarchi al potere, non per i cittadini in senso lato. In Slovenia i comunisti divennero i più fervidi socialdemocratici sostenitori delle libere elezioni e dell’integrazione europea, in Croazia saltarono nel calderone del partito di Franjo Tudjman, l’HDZ – la Comunità democratica croata – assieme a nazionalisti non di rado connesso ai gruppi più estremi dei cosiddetti gruppi legati alla diaspora croata, dal Canada all’Australia, connessi a loro volta a fuoriusciti legati agli ustasa, i fascisti croati. In Serbia la fusione dei comunisti con l’Alleanza socialista del popolo lavoratore (un’organizzazione socio-politica di massa legata ovviamente al partito) diede i natali, nel luglio 1990, al Partito socialista serbo, al cui vertice venne posto Milosevic. Quest’ultimo, ed il suo partito, in quello stadio erano ormai proiettati verso una retorica ed una narrativa prettamente funzionali al nazionalismo serbo. La questione è che i serbi erano presenti non solamente in Serbia in quanto repubblica, bensì anche in Bosnia ed Erzegovina ed in Croazia.

Il 1990 è stato l’anno dove, in seguito allo scioglimento fattuale della Lega dei comunisti della Jugoslavia, il principale contenitore e risolutore dei conflitti politici in Jugoslavia, si tennero, in mesi differenti, le prime libere elezioni in tutte le repubbliche jugoslave. Nel mese di maggio, in Croazia, vinse, con un po’ di sorpresa, dato che si pensava che il sistema maggioritario avrebbe favorito gli ex comunisti, il partito di Tudjman (dove però non facevano difetto gli ex comunisti, anzi). Tudjman era un ex partigiano, ex generale dell’Armata popolare jugoslava, storico, poi dissidente. In questa veste, negli anni ’80, iniziò a mettere in discussione il genocidio dei serbi, ebrei e rom nel campo di concentramento di Jasenovac, minimizzando, riducendo le cifre, relativizzando il regime ustascia di Ante Pavelic durante la Seconda guerra mondiale (un po’ come relativizzare i crimine del regime fascista e Mussolini). Inoltre, uno dei primi atti della Croazia democratica fu quello rimuovere la posizione dei serbi di Croazia come nazione costitutiva della Repubblica socialista di Croazia, al quale seguirono, tra le altre cose, licenziamenti dall’amministrazione pubblica dei serbi. In effetti, in Croazia, i serbi locali, sparsi nella Krajina (e non solo), non avevano lo status di minoranza, come gli albanesi in Kosovo, tanto per dire, così come la Krajina non era una provincia autonoma all’interno della Croazia (a differenza della Vojvodina e del Kosovo all’interno della Serbia). Erano formalmente parte integrante della Croazia, la Croazia era la patria di entrambi, croati e serbi, così come in Bosnia ed Erzegovina i popoli costitutivi erano musulmani, serbi e croati. Nell’ottica dell’ideologia socialista jugoslava, tutti i popoli che avevano la propria madrepatria all’estero, come albanesi, italiani e ungheresi, erano minoranze, però venivano chiamati “nazionalità”. Invece, i popoli la cui patria era esclusivamente in Jugoslavia, come gli sloveni, croati, serbi, macedoni, musulmani (in pratica, per semplificare, gli slavi bosniaci di fede e cultura islamica) erano definiti “nazioni”. La presenza dei serbi in Croazia risaliva a secoli addietro, e vivevano, con ampia autonomia, all’interno dell’Impero Asburgico, sui confini con l’Impero Ottomano.

Dunque, la retorica aggressiva del nuovo regime di Zagabria da un lato, provocando nella popolazione serba di Croazia cupe reminiscenze delle persecuzioni fasciste di cui furono oggetto, e la belligerante retorica emanata dal comunista convertitosi al nazionalismo – Milosevic, a Belgrado, ed il supporto dei servizi di sicurezza di Belgrado agli elementi più estremi della comunità serba di Croazia, spinsero, con malafede e opportunismo politico, e incapacità di gestire gli strumenti della democrazia, l’acceleratore verso il baratro del conflitto.

Fu così che, nell’agosto del 1990 (circa un anno prima dello scoppio delle ostilità belliche conclamate e della dissoluzione della federazione), dopo mesi di una feroce propaganda mediatica volta a fomentare l’odio verso l’altro, il sospetto, la paura, da Belgrado e Zagabria, i serbi di Croazia decisero di rendersi autonomi, attraverso la Balvan revolucija, ossia il blocco delle strade d’accesso alla Krajina tramite tronchi d’albero, pietre, posti di blocco, per impedire alle forze del ministero degli interni di Zagabria di controllare il territorio. Si tenne un referendum (un po’ come in Crimea lo scorso anno) in Krajina, si domandava ufficialmente solo un’autonomia culturale per i serbi, ma era evidente, nei fatti, che si chiedeva l’autonomia politica. Mentre le federazione si stava lentamente sgretolando, i primi gravi episodi di violenza sul suolo jugoslavo, prima della guerra, avvennero effettivamente nella Krajina, tra agenti di polizia croati e popolazione locale serba, già infiltrata da facinorosi e sobillatori spediti e eterodiretti da Belgrado. Quando i presidenti delle sei repubbliche jugoslave non riuscirono a trovare un compromesso su quale futuro dare alla federazione, quale forma adottare, la Slovenia e la Croazia scelsero la strada della secessione per non essere fagocitati dal rullo compressore della Serbia, che già aveva eliminato le autonomie della Vojvodina, del Kosovo, aveva messo i propri alleati in Montenegro, e stava prendendo in ostaggio la comunità dei serbi in Croazia e Bosnia.

Così, dopo lo scoppio delle ostilità, in seguito alla proclamazione di indipendenza della Slovenia e della Croazia nel giugno 1991, i serbi di Croazia, a dicembre, si proclamarono a loro volta indipendenti da Zagabria. L’Armata popolare jugoslava, che in teoria avrebbe dovuto avere un ruolo di forza di interposizione tra i ribelli serbi e la polizia croata, che stava da mesi facendo incetta di armi da guerra in maniera illecita tramite il poroso confine ungherese (incluse armi dell’ormai ex DDR), divenne strutturalmente un supporto logistico e strategico a sostegno dei serbi. La capitale di questo stato formalmente non riconosciuto divenne la cittadina di Knin. La Croazia, a differenza della Serbia, che si è appropriata delle strutture e dei quadri dell’esercito, oltre che delle armi, nel 1991 non aveva un esercito, così come non l’aveva il governo di Sarajevo nel 1992. Non fu molto difficile installare uno stato ribelle/fantoccio in Krajina. Circa 220.000 croati vennero espulsi dalla cosiddetta Repubblica serba di Krajina, dalle loro case, nel primo anno (circa) del conflitto. Nel frattempo, le forze federali ormai rispondenti alle logiche di Milosevic e compagni, rasero al suolo Vukovar, nella Slavonia orientale, bombardarono Dubrovnik (da Trebinje, in Erzegovina) e altre città della Dalmazia. Dopodiché le forze della Nazioni Unite, si misero come cuscinetto, come forza, appunto, di interposizione, tra i ribelli serbi e le forze di Zagabria. Fino al 1995 la situazione rimase relativamente stabile. Nell’aprile del 1992 scoppiò il conflitto in Bosnia, riproducendo su scala locale quanto avvenuto a livello jugoslavo, ossia secessionismi e conflitti armati, questa volta tra serbi, croati e musulmani.

La Croazia perse un quarto del proprio territorio, la sua integrità territoriale venne interrotta, oltre che a trovarsi centinaia di miglia di profughi in casa. Il regime di Tudjman non poteva tollerare una simile sconfitta, e meditava la vendetta. Il primo passo è stato quello di costituire, costruire, addestrare un esercito moderno, ben armato, pronto a combattere, adottando strategie belliche della NATO. Ovviamente, tra il 1993 ed il 1994, la situazione della Croazia divenne ulteriormente complessa, perché le forze croate di Bosnia ed Erzegovina combatterono contro i Musulmani di Izetbegovic (basti pensare alla città di Mostar). Una delle soluzioni sul tavolo, per risolvere la questione dei serbi di Croazia era di dare loro un’ampia autonomia all’interno della Croazia (il piano Z4), supportato dalla Comunità internazionale, Russia inclusa. Tuttavia scontentava praticamente tutti, sia a Zagabria (concessione eccessiva, troppa autonomia), che a Knin (perdita dell’indipendenza, cessione di sovranità).

Nel 1994 gli USA spinsero Zagabria e Sarajevo, Tudjman e Izetbegovic a trovare un accordo, un compromesso, che pose le basi dell’odierna Federazione croato-musulmana in Bosnia ed Erzegovina. L’amministrazione del giovane presidente americano, Bill Clinton, stava cercando una soluzione al conflitto in ex Jugoslavia, tuttavia il meccanismo delle Nazioni Unite, per via della sua collegialità e varie chiavi di comando, impedivano una soluzione, anzi. In pratica i caschi blu Onu divennero dei passivi spettatori del conflitto, se non, in alcuni casi, complici involontari. La situazione era indubbiamente complessa. In Serbia il regime iniziava ad accusare logoramento e stanchezza per la protratta situazione dell’embargo delle Nazioni Unite, essendo indirettamente coinvolto nel conflitto bosniaco, fornendo uomini, armi ecc. Milosevic iniziò a prendere le distanze da Pale, ossia da Radovan Karadzic, leader dei serbi di Bosnia, e pure dai serbi di Krajina. Milosevic, Belgrado, volevano la pace, perché l’opinione pubblica era stremata dalle sanzioni e dall’avere la guerra sull’uscio di casa. Tudjman invece sognava un’azione militare che avrebbe permesso la riconquista della sovranità territoriale della Croazia e consolidare il consenso elettorale. Così, tra il 1994 ed il 1995, poco alla volta, senza grandi scossoni, si vennero a creare delle premesse per trovare un accordo di massima per portare a termine il conflitto, sebbene non fosse affatto scontato. Oltre al logorio dei serbi in Bosnia ed in Serbia, entrarono in campo altri fattori. In primo luogo l’embargo sulle armi dell’ONU ai belligeranti ex jugoslavi non venne rispettato (lo è mai stato?). Un flusso di armi verso Zagabria e Sarajevo incrementò la potenza di fuoco dell’esercito croato, croato di Bosnia e Musulmano, con il beneplacito degli USA. L’idea era che la prima mossa per poter giungere ad un accordo di pace fosse di riequilibrare le forze in campo sul terreno. Un altro passo in quella direzione fu quella di utilizzare la NATO come arma nelle mani delle Nazioni Unite per far rispettare gli accordi e le tregue, sistematicamente violate, da parte dei serbi di Bosnia ed il loro utilizzo dell’artiglieria pesante nei confronti della Sarajevo sotto assedio costante.

Tuttavia questa strategia non andò molto bene. Il segretario generale ONU si irritò perché non venne rispettata la catena di comando ed il meccanismo della doppia chiave nell’uso della forza da parte della NATO verso i serbi di Bosnia, e i serbi di Bosnia, che non la presero propriamente bene, presero in ostaggio, nella primavera del 1995, varie decine di caschi blu, tra cui militari francesi. Ovviamente questo era un grave danno di immagine per l’ONU, ma ancor peggio per l’amministrazione francese, che dovette resistere alle pressioni dell’opinione pubblica. Infatti, i caschi blu, francesi inclusi, vennero utilizzati come scudi umani dai serbi di Bosnia, per proteggere la loro artiglieria e le loro postazioni, frapponendoli ai missili NATO. Insomma, con strategie di ricatto e terrorismo, la situazione sul terreno, nella primavera del 1995 era ancora fluida. Però Clinton era determinato a trovare una soluzione di pace, ed anche gli alleati europei, che di fatto avevano abdicato alla loro rilevanza e confermato la loro irresolutezza, in primo luogo non riuscendo a mediare una dissoluzione pacifica della federazione jugoslava, ed in secondo luogo mostrando che il sistema delle forze di interposizione ONU era un’arma spuntata ed inefficace, e metteva quindi a repentaglio i loro militari, con un effetto boomerang a livello di consenso politico a casa propria.

Venne il momento dell’Operazione Lampo (Bljesak) agli inizi di maggio del 1995. L’esercito della Croazia riuscì a riprendere il controllo della Slavonia occidentale, ossia una fetta della Repubblica serba di Krajina. L’esito fu positivo per Zagabria, galvanizzando Tudjman, mentre dall’altra fu uno shock psicologico per il regime di Knin. Per questa ragione, senza nessuna ragione strategica o militare, come un gratuito atto terroristico, le forze dei serbi di Krajina lanciarono dei missili sul centro di Zagabria, provocando vari morti e feriti. Zagabria era consapevole a questo punto della propria superiorità bellica rispetto ai serbi di Krajina, ed era evidente che Belgrado stava letteralmente scaricando questa entità ribelle, dunque occorreva riconquistare la Krajina cercando assolutamente di evitare un contatto diretto con le forze della Federazione Jugoslava (ossia Serbia e Montenegro), perché tutto sommato erano più consistenti nel complesso. Gli USA temevano però che una vittoria schiacciante della Croazia, eventualmente, in coordinazione con l’esercito dei Musulmani di Bosnia, avrebbe portato ad un collasso della Repubblica serba di Bosnia, una reazione incontrollata di Belgrado (flusso incontrollato di profughi, sommosse, nuovi leader più radicali di Milosevic), e l’ipotetico coinvolgimento della Russia a sostegno del fratello ortodosso. Insomma, gli americani non volevano umiliare e spazzare via del tutto i serbi dalla Bosnia, per timore di ripercussioni incontrollabili a livello regionale e internazionale. Dopo l’operazione Lampo (inizio maggio 1995) e prima dell’Operazione Tempesta (inizio agosto 1995), avvenne quanto è noto ormai al grande pubblico, ossia il genocidio di Srebrenica. Una delle ipotesi in gioco, e neppure una delle più peregrine, è che a un certo punto, tramite la mediazione di Richard Holbrooke, che faceva la spola in ex Jugoslavia alla ricerca di un accordo, è che Zagabria, Sarajevo e Belgrado, dovessero trovare un accordo, che bisognasse rispettare in linea di massima le forze sul terreno, e creare le premesse per una pace duratura. Dato che la guerra è stata fatta in nome del nazionalismo, e praticata tramite la pulizia etnica sistematica e reciproca, all’interno di questa logica perversa occorreva stabilire due o tre parametri di fondo. In primo luogo quello di ridefinire, in chiave 50-50% (49% ai serbi, il restante 51% alla federazione croato-musulmana) la ripartizione della Bosnia tra Federazione croato-musulmana e Repubblica serba di Bosnia, e scartare una volta per tutte la spartizione tra Croazia e Serbia della Bosnia (come invece avrebbero voluto Tudjman e Milosevic). Inoltre bisognava ricompattare e deframmentare la composizione etnica del territorio, dunque le prime vittime sacrificali, in questa logica, dovevano essere le ali più estreme, quelle meno difendibili e che avrebbero reso più complessa le vie di comunicazione dei nuovi territori pacificati. Dal punto di vista della Serbia l’ala marginale sarebbe stata la Krajina, quella da sacrificare. Dal punto di vista di Sarajevo, di Izetbegovic insomma, erano le enclaves orientali, tra cui Srebrenica. L’idea di fondo, seguendo questa logica, sarebbe stato quello di uno scambio reciproco di popolazioni, ossia di pulizia etnica, come più volte è successo nella storia, anche recente, con molta crudeltà e cinismo. In questo modo tutti sarebbero stati contenti e soddisfatti: Tudjman riconquistava la Croazia, Milosevic salvava la Repubblica serba di Bosnia, Izetbegovic formalmente avrebbe avuto una Bosnia unita, gli USA sarebbero stati gli indispensabili pacificatori, e l’Europa, beh, avrebbe avuto la responsabilità di co-gestire il dopoguerra, mantenendo ed inviando le proprie truppe sul terreno, come fece pure l’Italia.

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A prescindere dalle interpretazioni possibili, e dalle speculazioni, l’ambasciatore americano a Zagabria, anche se non diede ufficialmente alcuna “luce verde” all’operazione Tempesta, di certo non si frappose, anche perché vi fu un supporto logistico da parte delle forze statunitensi all’operazione. In quel mentre, i caschi blu che si trovavano in mezzo tra l’esercito croato e quelle dei serbi di Krajina, vennero bellamente ignorati e messe da parte (come del resto era già accaduto varie volte in precedenza) ed ebbe inizio la “liberazione” della Krajina. Già, ma in concreto cosa vuol dire liberazione della Krajina? L’esercito croato, senza incontrare nessuna sostanziale resistenza, avendo già compiuto in precedenza un’operazione di accerchiamento in territorio bosniaco, ed in concomitanza con un’altra operazione dell’esercito di Sarajevo volta a liberare l’assedio della sacca di Bihac, ha sbaragliato le difese dell’esercito dei serbi di Croazia. Nell’arco di circa 4 giorni, di fatto, i civili ed i militari sono fuggiti, in fretta e furia, con auto, trattori, addirittura motozappe. Hanno abbandonato nella paura le loro case, le loro terre. Una cifra verosimilmente compresa tra le 150 e le 250 mila persone è fuggita, mentre l’esercito croato ha lasciato loro aperte delle vie di fuga verso la Bosnia. Una parte si è fermata nella Repubblica serba di Bosnia, gli altri hanno proseguito il loro esodo in Serbia. Sono fuggiti perché le loro autorità militari e civili hanno ordinato l’evacuazione. Lo hanno fatto per timore. Lo hanno fatto perché Belgrado non ha fatto nulla per impedirlo e li ha abbandonati al loro destino. Tudjman e molti a Zagabria lo speravano intimamente, a dispetto delle dichiarazioni timide ed ad uso e consumo dell’Occidente che affermavano il contrario. Anzi, era un obiettivo malcelato, quello di Tudjman, perché nei giorni precedenti ai colloqui di pace di Ginevra Tudjman mandò funzionari di basso profilo, non c’era un reale interesse a far sì che i civili serbi restassero. Nei giorni e nelle settimane successive, con la complicità delle forze di sicurezza di Zagabria, criminali e soldataglia uccisero vecchi inermi, vandalizzarono, incendiarono e derubarono selvaggiamente le case. Per mesi. Quando Tudjman andò trionfalmente a Knin, con il treno diretto verso la Dalmazia, non riuscì a contenere la propria soddisfazione, affermando che i serbi del posto fuggirono senza neppure prendere “le loro mutande sporche”, augurando ai profughi “buon viaggio” (con intenzione chiaramente cinica e canzonatoria). Compiuta la pulizia etnica della Krajina, i profughi trovarono, una volta giunti in Serbia, una fredda accoglienza, soprattutto nella fase iniziale e da parte delle istituzioni (i cittadini, spontaneamente, organizzarono raccolta di beni di prima necessità). I media di regime praticamente non ne parlavano, nell’autostrada attorno a Belgrado si cercava di deviarli e non farli entrare in città. Milosevic sperava di dirottarli in Kosovo e in Vojvodina, per cercare di equilibrare maggiormente il rapporto con le minoranze locali, albanesi e ungheresi rispettivamente. Alla fine, pochi scelsero di stabilirsi in Kosovo, temendo ulteriori destabilizzazioni. I profughi vennero sparpagliati nel territorio, come ad esempio in Vojvodina. La minoranza croata, in questa provincia, venne scacciata, senza troppi complimenti, per far posto a parte dei profughi serbi della Krajina. Stessa sorte toccò ai croati della regione di Banja Luka, nella Repubblica serba di Bosnia.

Così, le case abbandonate dai serbi in Croazia ospitarono parte di coloro che abbandonarono la zona occupata dalle milizie dei serbi di Krajina nel 1991, e parte venne assegnata ai profughi croati dalla Serbia e dalla Bosnia nel 1995 dopo l’operazione Oluja. La tragedia, per i serbi della Krajina rifugiatisi in Serbia, non ebbe fine. I giovani maschi vennero braccati dalla polizia e spediti, con la forza, a combattere in Bosnia, dati in pasto ai mercenari e profittatori di guerra, come la soldataglia di Arkan. Vennero trattati come dei disertori, dei pavidi che non hanno avuto il coraggio di combattere per difendere il territorio serbo in Croazia. Così la secolare comunità dei serbi di Croazia venne annichilita. Molti migrarono all’estero, dal nord America all’Oceania, pochi rientrarono, a distanza di anni, nella loro terra, e spesso solo per vendere le proprietà e non per rimanervi. Non fu un caso che Tudjman, subito dopo la pulizia etnica in Krajina, volle rifare il censimento, con l’intenzione di sforbiciare i diritti della minoranza serba in Croazia, considerato il loro calo complessivo. La Slavonia Orientale, dove risiede la città martire di Vukovar, vittima delle milizie serbe nel 1991, dopo una fase di transizione gestita dall’ONU tornò pienamente sotto la sovranità della Croazia. Ancora oggi la minoranza serba è soggetta a discriminazioni ed è cronaca di questi giorni l’infinita polemica sull’uso del cirillico da parte di questa comunità.

La Croazia fa parte dell’Ue da due anni ormai, tuttavia la questione dei diritti delle minoranze non è risolta. Come se tutto ciò non bastasse, il tribunale dell’Aja per i crimini di guerra in ex Jugoslavia non ha condannato nessun responsabile per l’Operazione Oluja. Il fatto che Ante Gotovina e altri comandanti militari siano stati prosciolti e siano rientrati in Croazia come eroi nazionali non ha fatto altro che aumentare il senso di amarezza e di ingiustizia da parte della minoranza serba, anche perché in primo grado vennero condannati per le loro responsabilità nei crimini a scapito dei serbi della Krajina. Ad oggi, i tribunali croati hanno condannato in via definitiva una sola persona per crimini di guerra durante Oluja. Senza calcolare il fatto che lo scomparso presidente Franjo Tudjman avrebbe avuto i requisiti per essere indagato dall’Aja, se non fosse deceduto di morte naturale, aumentando così il senso di frustrazione da parte dell’opinione pubblica serba e la percezione che il tribunale fosse uno strumento atto a colpire esclusivamente i serbi. Il tutto mentre nuove statue vengono erette in Croazia in memoria di Tudjman, e anche l’aeroporto di Zagabria è stato recentemente dedicato al controverso padre della patria.

Peraltro, la politicizzazione e la strumentalizzazione della memoria, nei rapporto tra la Croazia e la Serbia, è in effetti un capitolo pressoché infinito, tant’è vero che è solamente dello scorso febbraio la sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’ONU che stabilisce che né la Croazia né la Serbia commisero reciprocamente genocidio durante la guerra negli anni ’90. Non si può escludere che la Croazia, a dispetto di quanto pubblicamente dichiarato, stia alzando la posta in gioco in previsione dell’accesso futuro all’Unione Europea, tenendo a mente la definizione dei confini tra i due paesi.

Come s’è visto, per sommi capi, certo, la commemorazione di Oluja, in Croazia in quanto vittoria e in Serbia e Repubblica serba di Bosnia in quanto dramma del popolo serbo, dimostra quanto il tema della memoria pubblica sia sensibile, manipolabile, che due mezze verità e tanti silenzi non restituiscono l’immagine generale di quanto effettivamente accaduto e del perché è accaduto. La presidentessa della Croazia parla di Oluja come di un’operazione “pulita come una lacrima” perché indirettamente si riferisce all’assoluzione, da parte del tribunale dell’Aja, del generale Gotovina e di altri ufficiali che presero parte al comando dell’operazione. Il problema è che Oluja ha provocato l’espulsione, e conseguentemente la pulizia, quella sì, però etnica, della minoranza serba dalla Croazia.

In Serbia, il presidente Nikolic, paragonando Oluja ad un atto degno degli ustasa, dei fascisti croati, tende a ripetere quella macabra retorica adottata dai nazionalisti serbi quando la Croazia si rese indipendente dalla Jugoslavia. Ancora il 28 giugno 1995, durante una parata militare dell’esercito dei serbi di Krajina, a Slunj, il presidente di questa entità ritornò sul tema, parlando della Croazia del 1995 come se fosse quella del 1941. Ciò che sfugge è che la situazione del 1991 (o del 1995) non era affatto paragonabile a quella del 1941, Tudjman non era Ante Pavelic, nonostante tutto. L’aver spinto, come in un eterno presente, le macabre memorie della Seconda guerra mondiale e del patimento dei serbi vissuti sotto il regime di Pavelic, dimenticando quasi mezzo secolo di pace e convivenza, come se non fosse mai accaduto, spingendo sistematicamente alla costruzione della paura e dell’odio ha condotto al dolore ed alla devastazione. Peraltro, persone come Tomislav Nikolic, e Aleksandar Vucic, ex membri e fedelissimi di Vojislav Seselj, ipernazionalista serbo, che nonostante la malattia ed il processo in corso all’Aja non cessa di stupire, in negativo, con i suoi sproloqui deliranti e atti di offesa gratuita dell’altro (come incendiare la bandiera della Croazia davanti all’ambasciata di questo paese a Belgrado, in segno di protesta per la commemorazione di Oluja), persone che inneggiavano all’uccisione di 100 musulmani per ogni serbo ucciso (Vucic), non hanno alcun diritto etico o morale nella commemorazione “serba” di Oluja. Non ce l’hanno perché il Partito radicale serbo, con Seselj, è stato l’utile idiota del regime di Milosevic nel corso degli anni ’90 (un’opposizione fantoccio), e perché hanno propagato idee a metà strada tra il delirio ed il nazismo, e alcuni di loro (come, appunto Seselj e altri) hanno preso parte ai crimini di guerra formando delle bande paramilitari presenti sia in Croazia che in Bosnia.

In conclusione

Da oltre un quarto di secolo, i cittadini dell’ex Jugoslavia, sono stati presi in ostaggio da parte di una classe dirigente che ha sacrificato il bene comune per i propri egoismi. Alla fine degli anni ’80, i problemi sul tappeto nel paese, erano acuti, complessi, dalla disoccupazione alla crisi economica, piuttosto che alla questione dei diritti umani in Kosovo. Erano problemi molto seri, ma quasi nessun politico, e di certo non quelli più popolari tra le masse, hanno seriamente tentato di risolverli. Scommettere sulla carta demagogica, populista, dell’odio, del nazionalismo, è stato un ottimo investimento per i vari clan politici, per le vecchie e nuove oligarchie tutt’ora al potere. Salvo il fatto, a quanto pare trascurabile per alcuni, che sono morte oltre centomila persone, i milioni di profughi, la distruzione materiale, le persone ferite nel corpo e nello spirito per il resto della loro vita, e una frammentazione politica del tutto irrazionale nel XXI secolo. In nome di cosa? Della patria? Della lingua? Della bandiera? Di eventi avvenuti centinaia di anni orsono? Chi lo sa, è sufficiente però sapere che nella transizione tra il socialismo autogestito e la democrazia le aziende pubbliche non di rado sono finite, per cifre irrisorie, a pochi membri afferenti all’establishment, il contrabbando è prosperato, così come la criminalità organizzata, con il benestare di chi, nelle istituzioni, avrebbe dovuto vigilare. I profittatori di guerra si sono arricchiti, mentre gli standard di vita di buona parte dei cittadini ex jugoslavi sono deteriorati. I problemi già esistenti in tempo di pace, disoccupazione ed economia stagnante, non sono stati risolti, anzi, si sono aggravati, mentre si sono aggiunti molti altri problemi che prima non esistevano o non in quella dimensione, dalla ricostruzione materiale delle città, alla cura dei profughi, allo sminamento piuttosto che alle richieste dei gruppi di pressione dei veterani di guerra (come sta avvenendo in Croazia). La promessa e la costruzione di odio è stata, in fondo, come la classica profezia che si autoavvera. I nazionalisti serbi a metà anni ’80 denunciavano un presunto genocidio culturale dei serbi in Croazia (inutile dire che l’abuso del termine genocidio è un fatto increscioso), per poi finire, grazie proprio a questi isterismi e deliri collettivi, nell’aver ottenuto la pulizia etnica reale. Senza calcolare il fatto che il risentimento e l’odio, dopo la crudele e dilaniante esperienza delle guerre degli anni ’90 sono diventate reali e ben radicate nella popolazione, oltre ai pregiudizi.

Le oligarchie politiche post-jugoslave si sono convertite, in linea di massima, ad un europeismo di facciata, perché spinti dall’esterno e da parte dei rispettivi bacini elettorali. Hanno capitalizzato utilizzando la politica dell’odio, e nei mesi precedenti le campagne elettorali non esitano a strizzare l’occhio ai sentimenti più bassi e ferini dei loro concittadini, come del resto accade oggi in Italia a proposito dei rom o dei migranti.

Le potenze occidentali, venti anni fa, hanno dimostrato in primo luogo che i principi del cinismo, della realpolitik e dei rapporti di forza sul campo sono quelli veramente decisivi. I leader americani piuttosto che francesi, per dire, tenevano d’occhio il consenso dei loro elettori, ovviamente, e se questi si attendevano una soluzione ad un conflitto percepito ormai come intollerabile (non è la prima volta nella storia), ad ogni costo, spendendo tutto il proprio peso e influenza, hanno dunque intimato ai rappresentanti degli stati belligeranti, direttamente o indirettamente (Tudjman, Izetbegovic e Milosevic) di andare nella base aereonautica in Ohio per chiudersi in conclave, e non ne sarebbero usciti senza la fumata bianca, la pace, gli accordi di Dayton, che ancora oggi reggono in piedi l’ordine post-jugoslavo, nel bene e nel male. Se non altro, è evidente che la forza di volontà, da parte di una ristretta cerchia di leader politici, è stata più che sufficiente per terminare un conflitto durato 5 anni. Occorre però constatare che lo scambio umanitario di popolazioni, ossia la pulizia etnica, è stata accettata dall’Occidente come un fatto compiuto, ed è per questo che oggi, nella comunità bosgnacca, si reputa che la Repubblica serba di Bosnia sia un’entità immorale perché costruita sul genocidio del loro popolo.

Dopo la commemorazione di Srebrenica e di Oluja, nei prossimi mesi si terranno ulteriori commemorazioni degli accordi di Dayton, accademiche e non, o comunque connesse a questo episodio (come s’è visto al Film festival di Sarajevo 2015, si pensi alla pellicola “The Diplomat”). Gli eventi storici, verranno nuovamente scelti selettivamente, verranno distorti, altre verità verranno lasciate nell’ombra perché dissonanti e indesiderate, processi che, a onor del vero, vengono compiuti dagli individui nella vita quotidiana. Tuttavia, la cultura, l’educazione, la libertà di pensiero, la ricerca accademica, assieme a mezzi di comunicazione accessibili e indipendenti dovrebbero garantire un accesso alle informazioni pluralistico ai cittadini, in ex Jugoslavia come altrove. E saranno loro, i cittadini, a decidere se è nel loro interesse continuare a supportare oppure no, con il loro voto, una classe politica che, con facili promesse, li ha condotti nell’inferno della guerra, promuove pubblicamente distorsioni della realtà storica. Oluja è anche la cartina di tornasole della fragilità della memoria pubblica, dell’informazione, della educazione e della conoscenza. Questo sta avvenendo oggi, all’interno di un paese membro dell’UE (la Croazia), e in un paese candidato (la Serbia), in un’epoca in cui siamo immersi nelle informazioni, senza però la capacità di selezionare e valutare questa messe di dati.

Christian Costamagna

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